Qualche risultato migliore viene registrato in termini di tasso di occupazione dei posti letto ospedalieri, un dato che può offrire informazioni utili per valutare la capacità degli ospedali di farsi carico delle richieste di salute dei pazienti; e sul ricorso ai pronto soccorso, con un risultato di poco al di sotto della media Ocse. Ma la scarsa dotazione di posti letto e gli scarsi dati in termini di dimissioni ospedalieri, uniti alla carenza di personale sanitario, aiutano a far meglio comprendere la crisi che stanno da tempo attraversando gli ospedali italiani
Pochi posti letto ospedalieri, una dotazione inadeguata di posti nelle unità di terapia intensiva e un tasso di dimissioni molto al di sotto della media Ocse. Insieme alla carenza di personale sanitario, questi sono alcuni dati contenuti nel rapporto Health at a glance 2023 dell’Ocse che fotografano in maniera puntuale la crisi degli ospedali italiani.
La pandemia di Covid ha reso evidente come, per far fronte alle emergenze sia necessario non solo disporre di un numero sufficiente di posti letto ospedalieri ma anche di saper disporre di una certa flessibilità nel loro utilizzo. Tuttavia, un’eccedenza di posti letto potrebbe comportare un ricorso eccessivo ai ricoveri e quindi ad un incremento ingiustificato dei costi. Pertanto, è necessario trovare un corretto equilibrio tra la garanzia di una sufficiente numero di posti letto e un loro utilizzo efficiente.
Nei Paesi Ocse, nel 2021 c’erano in media 4,3 posti letto ospedalieri per 1.000 abitanti. In Corea (12,8 posti letto per 1.000) e Giappone (12,6 per 1.000) i tassi erano molto più alti. Oltre la metà dei Paesi Ocse ha riportato tra i 3 e gli 8 posti letto ospedalieri per 1.000 abitanti, con i tassi più bassi in Messico, Costa Rica e Colombia. L’Italia, con 3,1 posti letto si colloca ben al di sotto della media Ocse. Un dato che, insieme alla carenza di personale sanitario, spiega almeno in parte la crisi dei nostri Pronto soccorso e le lunghe liste d’attesa riguardanti gli interventi.
C’è da notare che almeno dal 2011 il numero di posti letto pro capite si è ridotto in quasi tutti i Paesi Ocse, La diminuzione maggiore si è verificata in Finlandia, con un calo di circa il 50%, che ha riguardato soprattutto i posti letto per l’assistenza a lungo termine e l’assistenza psichiatrica. Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia e Paesi Bassi hanno ridotto la capacità di 1 letto o più per 1.000 abitanti. Al contrario, il numero di posti letto è aumentato fortemente in Corea, con un numero significativo di questi dedicati all’assistenza a lungo termine.
Il tasso di occupazione dei posti letto ospedalieri può offrire informazioni utili per valutare la capacità degli ospedali di farsi carico delle richieste di salute dei pazienti. Alti tassi di occupazione dei posti letto possono essere sintomatici di un sistema sanitario sotto pressione. Una certa capacità di posti letto di riserva è necessaria per assorbire picchi imprevisti di pazienti che necessitano di ricovero.
Sebbene non vi sia consenso su quello che possa essere definito come un tasso di occupazione “ottimale”, un dato di circa l’85% è spesso considerato un livello massimo per ridurre il rischio di carenza di posti letto (Nice, 2018). Nel 2021, il tasso medio di occupazione dei posti letto ospedalieri era del 69,8%, ma superava l’85% in 3 dei 28 Paesi Ocse con dati comparabili: Irlanda, Israele e Canada. I tassi di occupazione erano relativamente bassi in Turchia, Messico e in molti Paesi dell’Europa centrale e orientale. In questo caso il dato italiano del 71% si allinea alla media Ocse del 70%.
Rispetto al 2019, nel 2021 i tassi di occupazione sono stati inferiori in quasi tutti i Paesi Ocse. Questo riflette in parte la sospensione o il razionamento delle cure ospedaliere non urgenti durante la pandemia.
Altra risorsa risultata fondamentale nelle prime ondate del Covid riguarda la disponibilità di posti letto nei reparti di terapia intensiva. Nel 2021, in media nei 29 Paesi Ocse c’erano 16,9 letti di terapia intensiva per 100.000 abitanti. I numeri variano notevolmente da circa 40 o più letti per 100.000 abitanti nella Repubblica Ceca, in Estonia e in Turchia a meno di 5 letti per 100.000 in Islanda e Svezia. Rispetto alla situazione pre-pandemia, tutti i Paesi hanno aumentato la capacità di terapia intensiva, ad eccezione del Lussemburgo (dove il numero assoluto di letti di terapia intensiva è rimasto invariato). Ciò riflette gli sforzi realizzati da diversi Paesi come la trasformazione temporanea di altri reparti clinici in unità di terapia intensiva e la creazione di ospedali da campo con unità di terapia intensiva. L’Italia, nonostante i miglioramenti rispetto al dato del 2019, con 11,6 posti per 100.000 abitanti continua ad avere una dotazione al di sotto della media Ocse di 16,9.
I tassi di dimissione ospedaliera – il numero di pazienti che lasciano un ospedale dopo aver soggiornato almeno una notte – sono un indicatore fondamentale dell’attività ospedaliera. Migliorare la tempestività delle dimissioni dei pazienti può aiutare il flusso dei pazienti attraverso l’ospedale, liberando posti letto e tempo per gli operatori sanitari. Sia le dimissioni premature che quelle ritardate peggiorano gli esiti sanitari e aumentano i costi: le dimissioni premature possono portare a costose riammissioni; le dimissioni ritardate consumano risorse ospedaliere limitate.
In media, nei Paesi Ocse, nel 2021 ci sono state 130 dimissioni ospedaliere ogni 1.000 abitanti. I tassi più alti sono stati registrati in Germania e Austria (oltre 200 per 1.000 abitanti), mentre i più bassi in Messico, Costa Rica, Cile, Canada, Paesi Bassi e Italia (meno di 100 per 1.000 abitanti). Tra i Paesi in via di adesione e i Paesi partner, i tassi erano elevati anche in Bulgaria e Cina e relativamente bassi in Brasile. L’Italia, con 93 dimissioni ospedaliere ogni 1.000 abitanti registra un dato molto al di sotto della media Ocse di 130 dimissioni.
Quasi tutti i Paesi hanno registrato forti riduzioni tra il 2019 e il 2021. Ciò riflette sia le politiche di dimissione ospedaliera ridisegnate per liberare posti letto per i pazienti Covid, sia l’interruzione delle cure per i pazienti non Covid.
La durata media della degenza ospedaliera è un ulteriore indicatore di efficienza nell’erogazione dei servizi sanitari. A parità di altre condizioni, una degenza più breve riduce il costo per dimissione e sposta l’assistenza da strutture ospedaliere a strutture meno costose. Una degenza più lunga può essere sintomo di uno scarso coordinamento delle cure, con il risultato che alcuni pazienti attendono inutilmente in ospedale fino a quando non è possibile organizzare la loro riabilitazione o l’assistenza a lungo termine. Allo stesso tempo, alcuni pazienti possono essere dimessi troppo presto, quando una permanenza più lunga in ospedale avrebbe potuto migliorare i loro risultati di salute o ridurre le probabilità di riammissione.
Nel 2021, la durata media della degenza ospedaliera è stata di 7,7 giorni nei 36 Paesi Ocse con dati comparabili. La Turchia e il Messico hanno registrato le degenze ospedaliere più brevi (circa 5 giorni o meno in media); la Corea e il Giappone quelle più lunghe (con una media di 16 giorni o più per paziente). L’Italia, con 8,5 giorni ha registrato una degenza media superiore alla media Ocse di 7,7 giorni.
Dal 2011, la durata media della degenza è diminuita nella maggior parte dei Paesi; i cali più significativi si sono verificati in Finlandia, Nuova Zelanda e Giappone. L’unico Paese che ha registrato un forte aumento è la Corea, ma questo riflette in parte un aumento del ruolo degli “ospedali per cure a lungo termine”, la cui funzione è simile a quella delle case di cura o delle strutture di assistenza a lungo termine.
Infine, l’uso dei servizi di pronto soccorso è una importante misura dei servizi ospedalieri di prima linea. Nei 25 Paesi Ocse con dati disponibili, nel 2021 si sono registrati in media 27 accessi al pronto soccorso ogni 100 persone. Il ricorso alle cure d’emergenza è stato particolarmente elevato in Portogallo e Spagna, con oltre 50 visite al pronto soccorso ogni 100 persone. L’Italia, con 25 accessi si colloca poco al di sotto delle media. Sebbene i Pronto Soccorso forniscano un servizio fondamentale, un uso elevato può essere indicativo di un’assistenza sanitaria inappropriata e inefficiente, in particolare se molti pazienti si rivolgono ai Pronto Soccorso per condizioni non urgenti che potrebbero essere gestite meglio in contesti di assistenza primaria e comunitaria.
Mentre le visite ai Pronto Soccorso sono aumentate più spesso tra il 2011 e il 2019 (aumentando in 15 dei 20 Paesi con dati sull’andamento temporale), sono diminuite per quasi tutti i Paesi tra il 2019 e il 2021 a causa dell’emergenza ospedaliera causata dal Covid.
Giovanni Rodriquez – QS
20 novembre 2023