Una pensione da 2 mila euro netti mensili perde nel biennio di cura meloniana, questo e il prossimo, 2.171 euro totali per il taglio dell’indicizzazione all’inflazione. In vent’anni di vita media avrà rinunciato a 28 mila euro, sempre al netto delle tasse. Se poi consideriamo l’altra nuova idea del governo inserita in manovra – sostituire l’indice del costo della vita, oggi applicato per rivalutare le pensioni, con altri indici come il deflatore del Pil –, arriviamo ad altri 30 mila euro netti ai quali quel pensionato dirà addio.
I calcoli sono dello Spi Cgil, il sindacato dei pensionati. Ma d’altro canto l’entità del sacrificio si era capita già un anno fa. A leggere la relazione tecnica della prima legge di Bilancio del governo Meloni, la nuova rivalutazione in sei fasce secche, al posto degli scaglioni progressivi di Prodi, assicura quasi 37 miliardi netti di risparmi alle casse dello Stato, tra 2023 e 2032. Altri 21 miliardi (entro il 2043) vengono dal nuovo taglio retroattivo, anche questo inserito in manovra, alle pensioni dei lavoratori pubblici, tra cui medici, infermieri, insegnanti, dipendenti degli enti pubblici. Il governo Meloni sta contenendo, se non abbassando, la curva della spesa pensionistica che toccherà il suo massimo – il 17.2% del Pil –tra 2035 e 2040, nel pieno della gobba pensionistica, quando il grosso dei baby boomers, tra cui medici e pubblici, lasceranno il lavoro.
Tutto si tiene, equità intergenerazionale e sostenibilità dei conti? Sì e no. L’Ufficio parlamentare di bilancio, authority indipendente dei conti pubblici, nella sua audizione alla manovra del 14 novembre con la presidente Lilia Cavallari sembra apprezzare alcune scelte del governo in ambito previdenziale, anche quando si traducono in strette. Ma, ad esempio, sul cambio di indice inflattivo al quale agganciare le pensioni mostra prudenza e scetticismo.
Il cambio non è immediato. Entrerà in vigore il primo gennaio 2027. Il governo si affiderà a una commissione di esperti nominati dai ministri dell’Economia e del Lavoro.
Ma già in manovra all’articolo 88 si dà un’indicazione di massima, seppur non definitiva e neppure obbligata: l’uso del deflatore del Pil, una sorta di “inflazione del Pil”. «Nessuna stranezza», ha spiegato il ministro Giorgetti al Parlamento, sempre il 14 novembre. «Assicura maggiore sostenibilità ai conti».
Ed è proprio questo il punto dolente. Lo nota l’Upb: «Il deflatore del Pil e l’indice del costo della vita hanno andamenti simili che divergono soprattutto in situazioni di crisi, perché il deflatore è più stabile». Durante un’emergenza energetica si impenna di meno, come nel 2022: mentre l’Italia registrava un picco dell’inflazione all’8,1% il deflatore del Pil era al 3%. Una differenza di cinque punti. Se le pensioni di quest’anno fossero state rivalutate al 3%, avrebbero perso molto.
Ecco perché Upb raccomanda prudenza. Perché a fronte dei «vantaggi di un maggior controllo della spesa» si rischia di «intaccare il potere d’acquisto dei redditi più bassi anche quando questi fossero indicizzati al 100%, con il rischio di creare pensioni basse e amplificare situazioni di insufficienza rispetto ai bisogni quotidiani». Il ministero dell’Economia fa notare che nei prossimi anni il deflatore del Pil sarà un po’ sopra l’indice del costo della vita. Il problema però è nei picchi dell’inflazione. Come dimostra il 2021 e soprattutto il 2022.