I tagli alle pensioni? «I problemi di sostenibilità della spesa pensionistica sono altrove». Alberto Brambilla, già sottosegretario al welfare di Roberto Maroni, è uno dei maggiori esperti di previdenza. Racconta di aver tentato di consigliare Giancarlo Giorgetti su come impostare la legge di Bilancio, «ma non mi ha dato retta».
Su cosa, Brambilla?
«Tutti voi giornalisti vi siete concentrati sulle misure di allungamento dell’età pensionabile, ma qui ci stiamo dimenticando che il governo sta ponendo le premesse per un nuovo buco nei conti dell’Inps per sedici miliardi».
Si riferisce alla conferma della decontribuzione per i redditi più bassi, immagino.
«Non solo. Nel 2024 avranno un forte sconto contributivo i redditi fino a 35mila euro, poi ci sono gli sgravi per le assunzioni al Sud, le donne, le madri».
C’era un altro modo per sostenere i redditi?
«Non discuto la scelta politica, ma gli effetti. La conseguenza di questa scelta è che nel 2024 l’Inps avrà 16 miliardi di entrate in meno su circa 190, nell’ipotesi più prudente. Così si va verso il disastro».
Il governo dovrà restituirli all’Inps. Non è accaduto anche in passato?
«L’anno scorso per 24 miliardi. Ma vorrei dire sommessamente che questo Paese deve fare già i conti con trenta miliardi di evasione contributiva l’anno. Sarebbe meglio – penso alla decontribuzione per le madri – costruire più asili nido».
Veniamo alla stretta sulle uscite dal lavoro. Che giudizio ne dà?
«È rimasta quota 103, si allungano le finestre di pensionamento e si impongono i ricalcoli contributivi. Di fatto l’età media minima di uscita salirà a 63 anni, con assegni più bassi. Non cambierà le sorti del sistema, ma è una stretta».
Nella direzione della legge Fornero, è così?
«La riforma Fornero aveva ed ha dei punti deboli, perché è troppo rigida. Di qui la necessità di ben nove “salvaguardie”: sommando fra loro anticipi pensionistici, lavoratori precoci, fragili e “Quota 100” nei dieci anni compresi fra il 2012 e il 2022 sono andate a riposo con regole diverse un milione di persone. La maggioranza voleva distruggere la legge Fornero, invece l’ha resa più dura. Mi chiedo come farà Salvini a spiegarlo ai suoi elettori».
Il ricalcolo dei contributi dei lavoratori statali che hanno iniziato a pagare i contributi prima del 1995 secondo lei è giusto?
«È giusto perché elimina un privilegio, ma ha effetti retroattivi, per cui a mio avviso è incostituzionale. Se il governo non cambia ci saranno valanghe di ricorsi».
Come si fa secondo lei a rendere il sistema previdenziale più sostenibile?
«Semplice: ci vogliono più lavoratori che pagano i contributi, non meno. In Italia abbiamo 38 milioni di persone in età da lavoro, ma sono occupati solo 23,4. Siamo all’ultimo posto dell’Europa a ventisette, battuti da Cipro, Malta e Grecia. Il tasso di occupazione è più basso del dieci per cento della media europea, il 17 rispetto a Francia e Germania. Servono più o meno quattro milioni in più di persone al lavoro».
Dunque meno sconti alle persone, più alle imprese. È così?
«La crescita e i redditi non si possono sostenere in questo modo. Il sistema non ha alcun incentivo all’occupazione. Le imprese, parlo di quelle più grandi, pagano il 24 per cento di Ires, il 5 per cento fra Irap e imposte sostitutive, più il 26 per cento al momento della distribuzione degli utili. Con una tassazione così come si fa a immaginare che le aziende abbiano voglia di assumere e crescere? La decontribuzione non serve a nulla. Usino le risorse per le politiche attive».
Da dove partirebbe?
«Dal rafforzamento delle scuole professionali. L’industria, la metalmeccanica al Nord hanno bisogno di specialisti. Da queste parti, a Milano, Lecco, Brescia, Monza, Bergamo il personale qualificato non si trova, non c’è. E poi bisogna ridurre il livello di assistenza pubblica. Siamo l’unico Paese d’Europa che non ha una banca dati unica. E così nessuno sa quanti fondi destina lo Stato, quanti le Regioni, quanti i Comuni».—
La Stampa