Repubblica- Quasi vietato anticipare la pensione in Italia. O almeno chi esce prima paga pegno. È questo il senso della seconda manovra del governo Meloni, approvata il 16 ottobre e per ora visibile solo in bozza. Il pacchetto previdenza sembra scritto per dire a Bruxelles e alle agenzie di rating che il Paese stringe i denti e la borsa. E mette a dieta il suo capitolo più grosso, quello che pesa il 16% del Pil.
Ma la premier ottiene anche un doppio colpo politico. Tiene a bada Forza Italia, mettendo zero per le pensioni minime. E soprattutto depotenzia la Lega. Se il tema elettorale di Salvini era “aboliamo la legge Fornero”, qui si passa a “peggioriamo la legge Fornero” i cui vincoli diventano più stringenti.
A colpire è il requisito, già molto discusso di quella legge, sulle pensioni dei post-1996, i Millennials totalmente contributivi. Solo i “ricchi” tra loro potranno lasciare il lavoro a 64 anni, perché serviranno quasi 1.700 euro di pensione. Come pure stupisce che i 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) necessari per la pensione anticipata saranno di nuovo agganciati alla speranza di vita a partire dal 2025 anziché dal 2027. Era stata proprio la Lega a bloccare per sette anni nel 2019, governo Conte I, l’allungo costante. Questo significa che tra poco più di un anno andremo verso Quota 43 per gli uomini e Quota 42 per le donne. Altro che Quota 41.
Ma tutte le forme di flessibilità in uscita vengono ora limitate, penalizzate o scoraggiate dal governo Meloni. A partire dalla nuova Quota 104, l’uscita a 63 anni con 41 di contributi valida solo per il 2024. A differenza delle altre Quote, qui scatta un meccanismo bonus/ malus. Chi ha i requisiti per uscire accetta un ricalcolo contributivo e quindi un taglio del 12% sulla quota retributiva maturata prima del 1996. Chi invece decide di restare può incassare in busta paga il bonus Maroni, la parte di contributi previdenziali che versa all’Inps pari al 9,19%, abbassando però la pensione futura.
La scelta è dunque uscire subito con meno soldi. Restare con uno stipendio un po’ più alto. Oppure aspettare i requisiti ordinari della Fornero. Il ricalcolo è un potente disincentivo e una novità assoluta, finora riservata solo alle donne e sull’intero assegno, non solo sulla quota retributiva. Tra l’altro Quota 104 viene spalmata con lentezza agendo sulle finestre di uscita, per abbassarne l’impatto sulla spesa del prossimo anno. La finestra per i dipendenti privati viene allungata da 3 a 6 mesi. Quella dei dipendenti pubblici da 6 a 9 mesi.
Si capisce che l’intenzione del ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, concentratissimo sulla manovra «seria, responsabile, prudente», era di stringere su tutto. Alla fine però il suo annunciato “fondo per la flessibilità” non c’è. E quindi restano sia Ape sociale che Opzione donna, seppur riviste in peggio.
L’età di accesso all’Ape sociale – un’indennità per disoccupati, invalidi, caregiver, lavoratori gravosi – sale da 63 anni a 63 anni e 5 mesi. Opzione donna rimane nella sua versione meloniana attuale così severa da aver creato 20 mila “esodate” per i troppi paletti. Ora sale pure l’età, da 60 a 61 anni e 35 di contributi, con sconto fino a due anni se ci sono figli.
Le pensioni minime non aumentano, neanche quelle over 75. Alla fine, per effetto della sola inflazione, l’assegno si assesterà sui 600 euro. Il governo torna poi a rivedere il meccanismo dell’indicizzazione all’inflazione. Ma stavolta l’operazione sembra compensativa, dopo il taglio da 10 miliardi in tre anni del 2022. La seconda fascia (tra 2.100 e 2.600 euro) recupera il 5% di inflazione in più, dall’85 al 90%. L’ultima fascia, sopra i 5.200 eurolordi, ne perde il 10% e passa dal 32 al 22%. Gli assegni fino a 4 volte il minimo, ovvero fino a 2.100 euro lordi mantengono il 100%.
Il governo poi istituisce una Commissione di esperti presso il ministero dell’Economia, «sentito il Cnel», per «valutare» il meccanismo automatico di rivalutazione all’inflazione delle pensioni e della spesa sociale, come l’assegno unico per i figli e il Reddito di cittadinanza. L’idea è sostituire, dal primo gennaio 2027, l’indice del costo della vita con il «deflatore del Pil», più basso in situazioni di alta inflazione come quella del 2022, quando era al 3% mentre l’inflazione all’8%. Altro messaggio, neanche troppo nascosto, a Bruxelles.