Michele Angheleddu fa l’autotrasportatore. Figurarsi se lo spaventa viaggiare. Ma questa volta gli prende il groppo alla gola all’idea di doversi allontanare da moglie e figli piccoli per andarsi a curare nel «continente» il cancro che gli è stato appena diagnosticato. «L’idea di farlo lontano dai miei è troppo», dice mostrando quanto gli ha messo nero su bianco l’ospedale della sua provincia, Nuoro. «A causa della lista di attesa non è possibile rispettare la tempistica oncologica corretta». Tempo di attesa: sei mesi. «Pertanto si invita il paziente a recarsi in altro centro fuori regione». Giovanni M. – ricoverato qualche anno fa al Rummo di Benevento per un ictus – scopre di avere una neoplasia delle plasmacellule che si moltiplicano senza controllo nel midollo e altrove, causando fratture, dolori, problemi renali, indebolimento delle difese immunitarie e stati confusionali. «Avendo avuto un ictus sono costretto a prendere gli anticoagulanti, per cui periodicamente devo fare dei controlli ematologici. Lo scorso hanno ho provato a prenotare senza riuscirci. Nei giorni scorsi ci ho riprovato e la visita mi è stata fissata per il 21 maggio dell’anno prossimo, in pratica a due anni di distanza dalla precedente. Ma per me il rischio di essere soggetto a una scoagulazione improvvisa del sangue è dietro l’angolo».
Voci dal profondo di una sanità negata che incaglia nelle liste d’attesa qualcosa come 22 milioni e passa di italiani, quattro su dieci dei quali aggirano l’ostacolo pagando il privato, mentre altri due milioni e mezzo hanno del tutto rinunciato alle cure, documenta l’Istat.
Per abbattere i tempi di attesa ora il governo mette sul piatto della manovra 520 milioni, che servono a pagare di più sia il privato convenzionato affinché aumenti l’offerta di prestazioni, sia le ore di straordinario dei medici. Ma i loro stessi sindacati dicono che il problema si risolverà solo assumendo personale, non chiedendo di lavorare di più a chi già fa turni massacranti e per questo è in fuga dal servizio pubblico.
E poi dietro le liste di attesa non c’è solo la carenza di personale sanitario, ma anche un parco macchine, come tac e risonanze, spesso dell’era giurassica. A incidere è una sanità territoriale che non fa filtro, perché molti accertamenti più semplici si potrebbero fare negli studi dei medici di famiglia. Ma a monte spesso c’è anche la disorganizzazione.
«Mi hanno diagnosticato una forma cancerogena alle corde vocali i primi di giugno, mi è stato detto che dovevo essere operata con urgenza, quindi vengo messa in lista», racconta Anna di Roma. «Aspetto un mese e vengo chiamata per la pre-ospedalizzazione i primi di agosto». Lì dovrebbero averle fatto tutti gli esami che devono precedere un intervento come il suo. E infatti l’anestesista dà il via libera, «ma dopo pochi giorni ricevo una telefonata dall’ospedale che mi comunica la necessità eseguire un eco-colordopler. Dico ok, quando è l’esame? Mi rispondono che l’appuntamento è per il 19 ottobre. Non ci ho visto più: ma come, ho un cancro e voi mi fate aspettare così tanto?». Risposta: «Questo siamo riusciti a ottenere».
Anche il racconto di Francesco Meo, sempre di Roma, è un inno alla disorganizzazione. «Dopo una brutta caduta mi sono state prescritte sei lastre alle due anche, al bacino e alla lombare, sia centrale sia laterale. Provo a prenotare tramite ReCup, ma niente, tutte insieme non me le facevano. Eppure, chiunque sia entrato in una sala di radiologia sa che per fare più lastre quando si è lì basta cambiare un attimo posizione ed è fatta». Anche a Francesco hanno suggerito di rivolgersi a una delle tante cliniche romane che sull’inefficienza del pubblico fanno lauti guadagni. «Ma io mi sono rifiutato, alla fine ho autoridotto gli accertamenti rinunciando alle rx alle anche. Ora però cammino storto e temo che qualche osso si sia saldato male. Così come sospetto che si creino dal nulla tutte queste difficoltà in modo da favorire il privato».
Stesse considerazioni di Teresa Tartaglione, che in Campania ha promosso una petizione sulle liste di attesa. «Nonostante la delibera regionale sulla presa in carico del paziente oncologico per fare gli esami di controllo dopo chemio e radio, sono stata costretta a spendere dal privato 250 euro per un accertamento che il pubblico mi offriva con tempi di attesa tra i 2 e gli 8 mesi». Ma c’è chi queste spese non può permettersele, come Ida. «Premetto che vivo con un marito invalido e mio figlio minorenne. Durate una visita di controllo il nostro medico di famiglia mi prescrive una visita urgente e la pet per sospetto tumore alla mammella. A giugno chiamo subito il Cup regionale che mi offre come prima data utile il 12 dicembre. Ho dovuto accettare perché non sono nelle condizioni di pagare un privato ma così sto di fatto rinunciando alle cure».
E non si creda che il Nord sia meno colpito dalla piaga. In Lombardia il medico prescrive a Marina Repetti una pet urgente per un sospetto tumore al seno. «Allarmata chiamo il centralino della Regione ma nessuna struttura era disponibile». Fa una nuova richiesta accettando anche di allungare un po’ i tempi di attesa, «ma il risultato è stato che il primo appuntamento era a marzo del 2024. Così davanti alla paura ho finito per rinunciare al pubblico, pagando 900 euro». Ma a furia di dirottare pazienti al privato, anche quest’ultimo inizia a non farcela più. «Ho contattato una clinica per fare un’ecografia alla tiroide e l’appuntamento mi è stato fissato a cinque mesi», racconta Giuseppina Bissi, testimone di un modello lombardo precipitato come tutti nella trappola delle liste di attesa.