È venduta come cernia, ma è solo un parente povero e, a volte, nemmeno quello. La denuncia arriva da Eurofishmarket, società di ricerca impegnata, insieme a università ed enti pubblici, a far chiarezza nel mercato del pesce.
La cernia è un pesce pregiato, i suoi filetti un alimento apprezzato sulle tavole italiana. Ma siamo sicuri di quello che acquistiamo? Sempre più spesso – almeno in un caso su tre – succede di comprare come cernia pesci della stessa famiglia o addirittura di famiglie differenti, ma meno pregiati.
«Dal 2002 la legge vieta di ribattezzare il pesce con nomi di fantasia, è obbligatorio utilizzare una denominazione ufficiale che corrisponde al nome latino», spiega Valentina Tepedino, veterinaria e direttore di Eurofishmarket
Così, possono essere definite cernie solo quattro delle otto specie presenti nel Mediterraneo: l’Epinephelus aeneus, l’Epinephelus caninus e l’Epinephelus marginatus, una specie segnalata come a rischio estinzione dato il calo del 70% della presenza nei nostri mari, mentre il Polyprion americanus può essere venduto con il nome di “Cernia o Dotto”.
Le altre specie di cernia presenti sul mercato – più di 30 sono quelle in commercio in Europa – dovrebbero avere altri nomi, come Cernia atlantica per l’Epinephelus goreensis e la Mycteroperca rubra o Cernia indopacifica per l’Epinephelus diacanthus. Molto spesso però questi pesci sono venduti semplicemente come “Cernie”.
«Così si ingannano i consumatori perché si tratta di pesci meno pregiati di quelli pescati nel Mediterraneo» osserva Valentina Tepedino. Senza contare che alcuni potrebbero provenire da acque molto lontane o essere pesci ciguatossici ovvero con una tossina, potenzialmente pericolosa per l’uomo, che si forma nei mari tropicali in presenza di particolari alghe. «La ciguatossina può essere individuata con controlli specifici, che però vengono fatti solo se il pesce è riconosciuto correttamente come specie proveniente da certe aree», precisa Tepedino.
Anche più grave il fatto che a volte sono venduti come filetti di cernia specie diverse, come eglefino o platessa, e anche pesci di acqua dolce, come pangasio o persico africano.
Un’indagine condotta in laboratorio con tecnologie avanzate da Eurofishmarket, mostra che su 87 campioni freschi e surgelati proposti al pubblico come al dettaglio come «filetti di Cernia», il 37% aveva un’etichetta errata e il 15% apparteneva addirittura ad altre specie.
«Non ci aspettavamo questa percentuale di frodi, commenta Tepedino. La situazione è obiettivamente difficile, tanto che alcuni venditori affermano di non vendere filetti di cernia perché troppo spesso implicati in tentativi di frodi».
Per svelare la frode, gli organi di controllo dovrebbero utilizzare metodologie analitiche efficaci come l’analisi del Dna con la Pcr o come l’Ief o focalizzazione isoelettrica come è stato fatto in questa indagine. Sono metodiche semplici, veloci ed economiche che forniscono una precisa «impronta digitale » di ogni specie. Si tratta solo di completare l’archivio dei tracciati standard relativi ai diversi pesci, come è stato fatto con le cernie, e procedere con i controlli .
In futuro queste metodiche, già utilizzate negli Usa dalla Food and Drug Administration, potrebbero diventare anche nel nostro paese un sistema di riconoscimento ufficiale contro le frodi in commercio, grazie a un progetto voluto dal ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, attraverso la Direzione generale della pesca e il Comando generale delle Capitanerie di porto.
Ilfattoalimentare.it – domenica 25 settembre 2011