I costi (veri) per assistenza e pensioni. Reversibilità e accompagnamento: 40 miliardi di spesa. L’equità e gli sprechi
ROMA – Indennità di accompagnamento e pensioni di reversibilità. Se proprio si deve tagliare la spesa previdenziale, dice adesso la Lega con Roberto Calderoli, allora si guardi a queste due voci, perché qui ci sono sprechi e abusi. Vediamo più da vicino come stanno le cose. Per gli assegni di accompagnamento e di reversibilità si spendono più di 40 miliardi di euro l’anno e dunque si tratta di una cifra importante, ma che va a coprire prestazioni delicate, che riguardano circa 5 milioni di persone (ipotizzando che una parte riceva entrambe le prestazioni), spesso in condizione di grave bisogno.
Indennità di accompagnamento
È un sussidio di assistenza dove effettivamente un cambiamento sembra ragionevole: legare il riconoscimento e la misura dell’assegno non solo alla condizione di non autosufficienza del beneficiario, ma anche ai suoi redditi familiari. Oggi l’indennità di accompagnamento, al contrario delle pensioni di invalidità civile, viene concessa in presenza di una inabilità del 100% e della impossibilità di deambulare o di compiere gli atti quotidiani della vita, dice la legge. Ma non sono richiesti requisiti di reddito e quindi anche un milionario può prendere l’assegno.
Il risultato è che mentre le pensioni di invalidità civile, la cui concessione è subordinata anche a requisiti di reddito, sono circa un milione, per una spesa nel 2010 di 3 miliardi e mezzo (un invalido civile prende appena 260 euro al mese), gli assegni di accompagnamento sono molti di più, 1,7 milioni, e la spesa è stata di ben 13 miliardi (l’indennità media è di 487 euro al mese, 805 per i ciechi).
L’esplosione dei non autosufficienti
Questi assegni sono costantemente cresciuti negli anni perché con l’invecchiamento della popolazione aumenta la quota di persone non autosufficienti e del resto in Italia, a differenza che in Germania, non c’è uno specifico fondo pubblico di sostegno per questi cittadini. L’indennità è diventata insomma un aiuto per pagare in parte la badante. È chiaro che riducendo o togliendo l’assegno alle famiglie che hanno un alto reddito, si potrebbe aumentarlo alle famiglie a basso reddito, che spesso non ce la fanno a far fronte alle tante spese richieste dalla cura di una persona non autosufficiente. Quindi, eventualmente, più che di tagliare le risorse (l’Italia spende in questo settore meno della media europea) si tratta di distribuirle meglio in base al reddito, se si vuole fare un’operazione di equità e non di cassa.
Che poi nell’esplosione delle indennità di accompagnamento ci siano stati degli abusi, con la concessione del beneficio anche a falsi non autosufficienti, è sicuramente vero, soprattutto fino al 2009, quando il procedimento era di competenza delle Asl. Dal 2010, invece, se ne occupa, con maggiore severità, l’Inps. Non solo. Negli ultimi anni sono state fatte massicce campagne di controlli e altre ne sono in programma per ridurre gli sprechi. Tanto che nel 2010 l’Inps ha revocato il 23% delle prestazioni di invalidità controllate col richiamo a visita medica. Le cancellazioni sono state particolarmente numerose in certe aree del Mezzogiorno. Al Sud, in proporzione, ci sono infatti più indennità di accompagnamento: 3,7 ogni cento abitanti, contro le 3,5 del Centro e le 2,6 del Nord.
Pensioni di reversibilità
Se per le indennità di accompagnamento nel 2010 si sono spesi 13 miliardi, alle pensioni ai superstiti sono andati ben 27,6 miliardi di euro. Se poi si considera che questa cifra è quella che fa capo all’Inps e che quindi non ci sono le reversibilità pagate ai dipendenti pubblici e ai lavoratori delle casse professionali, si può tranquillamente supporre che la spesa annua sia superiore ai 30 miliardi. Beneficiari di queste pensioni nell’universo Inps sono 3,8 milioni di superstiti, cioè coniugi, figli o altri eredi che ricevono parte dell’assegno del pensionato o del lavoratore (possono bastare 5 anni di contributi) defunto. A differenza delle indennità di accompagnamento, le pensioni di reversibilità sono più frequenti al Nord: 6,7 ogni 100 abitanti, contro le 5,1 del Mezzogiorno e le 5,8 del Centro.
L’importo medio della reversibilità è di 533 euro al mese. La pensione ai superstiti è pari al 60% di quella del titolare defunto nel caso del coniuge mentre può arrivare al 100% sommando al coniuge due figli. Questi importi però, dalla riforma Dini del 1995, vengono ridotti nel caso il reddito del beneficiario superi di tre volte il minimo, cioè 1.382 euro al mese. Il taglio parte dal 25% e può arrivare al 50% per redditi superiori a 2.304 euro al mese (5 volte il minimo).
Le anomalie dell’Italia
Rispetto ad altri Paesi come Francia e Germania, spiega l’esperto Giuliano Cazzola (Pdl), la particolarità italiana è che non c’è una soglia di età per accedere al diritto, per cui anche una vedova o un vedovo giovanissimi prendono la reversibilità per tutta la vita. Per evitare i casi di abuso (classico quello della badante che sposa il moribondo) la manovra di luglio ha stabilito che nel caso uno si sposi in un’età superiore a 70 anni e il coniuge sia di almeno 20 anni più giovane, se il matrimonio non dura più di dieci anni, la pensione di reversibilità subisce un taglio del 10% per ogni anno che manca ai dieci. Se per esempio il marito muore dopo 5 anni dal matrimonio, la moglie giovane prenderà un assegno pari al 30% (il 50% del 60%) della pensione del defunto (sempre che non subisca ulteriori tagli legati al reddito). Per questo, conclude Cazzola, sulla reversibilità «resta poco da fare». Al massimo, aggiunge, «si può modulare l’assegno con un calcolo attuariale sulla base dell’età del beneficiario (più è giovane e meno prenderà perché riceverà l’assegno per più tempo, ndr ) o introdurre una soglia d’età per accedere al diritto».
In ogni caso, conclude il vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, «è desolante che il dibattito sulle misure da prendere per completare la riforma delle pensioni si sia infilato in questioni delicate come queste: una maggioranza che nel 2008 voleva cambiare il Paese non può finire per prendersela con le casalinghe vedove e con gli invalidi civili, trascurando le vere priorità, che sono il superamento delle pensioni di anzianità e l’anticipo a 65 anni dell’età di vecchiaia delle donne». E l’estensione del metodo contributivo a tutti, aggiungiamo noi.
Corriere.it – Enrico Marro – 26 agosto 2011