Non mi stupisce per niente che la percentuale di chi vorrebbe reintrodurre la «pena di morte», per i cani randagi, sia così alta.
Ha destato un certo clamore l’esito del sondaggio realizzato dall’Aidaa (Associazione italiana difesa animali e ambiente) su un campione di 1.064 italiani. Tre i quesiti posti. Il primo riguardava il metodo ritenuto migliore per combattere questa piaga sociale. Oltre la metà degli intervistati ha ravvisato nella sterilizzazione lo strumento più idoneo. Il secondo quesito era relativo alla proposta dell’Aidaa di arrivare a un piano europeo come unico metodo per il controllo dei cani randagi. Più del 60% concorda con l’Aidaa mentre il 30% pensa che ogni stato debba provvedere a sé. Il terzo è quello che ha sorpreso i dirigenti dell’associazione.
Si chiedeva agli intervistati circa la possibile introduzione della pena di morte per i cani randagi. Ebbene, il 33% degli italiani sarebbe favorevole, ma solo in caso di assoluta necessità, mentre di questo 33%, il 19% vede la soppressione come metodo di controllo dell’abbandono di cani.
«La forte aliquota di persone favorevoli all’introduzione della pena di morte per i randagi, seppure in stato di assoluta necessità, ci preoccupa molto», commenta Lorenzo Croce, presidente Aidaa che prosegue auspicando una concertazione europea su piani di sterilizzazione di massa, unico vero metodo, a suo dire. Per limitare questa piaga che colpisce quasi esclusivamente i paesi dell’Europa mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo ecc.).
Alcune considerazioni, a supporto della mia mancata sorpresa. Innanzitutto la cosiddetta pena di morte non costituirebbe un’introduzione, ma una reintroduzione. Soltanto poche decine d’anni fa i cani che finivano nel canile comunale, vi sostavano tre giorni in attesa che il legittimo proprietario li reclamasse. Se questo non avveniva, come capitava nella maggior parte dei casi, questi erano soppressi. La popolazione matura o anziana se ne ricorda molto bene e potrebbe associare a questa pratica il fatto che allora il fenomeno del randagismo fosse più limitato e soprattutto non esistessero i canili lager con tutti gli orrori che il business sottende. E allora, forse meglio morti che torturati per una vita intera. Si noti peraltro che società civili e molto avanzate come quella americana accettano, ancora oggi, che i cani sostino sette giorni in canile prima di essere soppressi. Aggiungo poi che, se nelle domande è stato usato proprio il termine «pena di morte», questo ha indotto sicuramente numerosi intervistati a una maggiore «pietas».
Si fosse parlato di eutanasia sono certo che quel 33% sarebbe stato nettamente superiore. Se poi consideriamo che una buona parte chiede la soppressione solo in caso di assoluta necessità, non vedo francamente la preoccupazione. Se un cane ha un tumore maligno incurabile con dolori inarrestabili, vogliamo condannarlo a mordere, per mesi, le sbarre di ferro con i denti?
E qui è il vero nocciolo del problema. Il dolore, la sofferenza. Come per l’uomo, ancor più per gli animali, molti preferiscono l’oblio della morte a una vita immersa nel dolore immedicabile, priva di qualunque dignità. Molti, tra i quali io stesso.
Oscar Grazioli – IL Giornale 17 agosto 2011