I costi della politica. Oggi si pensa a difendere lo status quo dei privilegi della «casta», occorre un cambio di marcia e reagire con misure precise di rigore e sviluppo
di Carlo Carboni. Estate rovente per la politica che continua pericolosamente a “giocare con il fuoco” in questa pericolosa congiuntura dei mercati internazionali che hanno messo nel mirino i bilanci pubblici del Vecchio mondo, Usa inclusi. Si glissa sui costi della politica, un passaggio obbligato per recuperare fiducia dei cittadini verso le istituzioni e la politica. Il risultato è che non c’è sufficiente credibilità e legittimazione da poter imporre misure di rigore e di sviluppo adeguate. Ha ragione Giuliano Amato nel sostenere che l’Italia può farcela da sola a reagire alla tempesta. Occorrerebbe però un’altra marcia della politica: non marginali riduzioni degli sprechi e delle inefficienze, ma decisioni ispirate al rigore e alla crescita. Per questo è necessario che la politica si riappropri di quello spessore morale tipico di una classe dirigente che, di fronte a gravi difficoltà sul campo, reagisce con circostanziate misure di rigore e di sviluppo esercitando una guida morale per il paese. L’esempio deve venire dal ceto politico che guida. D’altra parte, la nuova realtà globale ha impegnato la società a ridisegnare il mercato del lavoro, l’economia a ristrutturare e a rendere competitive le nostre imprese, ha reso incerta la nostra spina dorsale sociale sfarinando il nostro ceto medio, ma ha anche chiesto che la gestione della cosa pubblica riducesse i suoi sprechi e i suoi privilegi. Non a caso le crociate contro la casta, tre anni fa, hanno trovato un bestseller internazionale dal titolo eloquente Perché odiamo la Politica? di Colin Hay. Ma nell’Italia della seconda repubblica, seppur perennemente sul baratro della crisi politica, la classe di governo ha fatto spallucce e ha continuato ad ingrassare il suo esercito di professionisti, istituendo nuove province, aumentando indennità, vitalizi e privilegi, facendo lievitare i suoi costi di funzionamento (che per circa metà riguardano il livello nazionale). Concentrata sulla sua autorefenzialità, si è distratta sulla condizione in cui stava scivolando il paese. Oggi la difesa dello status quo dei costi diretti della politica, che si aggirano attorno ai 20 miliardi annui, è difeso solo dagli scranni della democrazia rappresentativa, occupati dai diretti interessati, indisponibili a “mollare” se non in un ipotetico futuro. Usano il vecchio modello della duplicity per difendere il loro status acquisito e la loro architettura istituzionale barocca con la quale hanno consolidato le loro clientele elettorali. Qui la partitocrazia c’entra poco: era già stata spazzata via da Tangentopoli. L’ostinazione a non mollare riguarda invece i Signori della politica, e il modello di politico che li sostiene. E il modello intramontabile del “politico per sempre”: dalle prime palestre comunali, a quelle via via più elevate e redditizie, fino al posizionamento in enti inutili usati come discarica di fine carriera, fino ai lucrosi vitalizi. In breve: badare più alla carriera politica che a guidare la gestione della cosa pubblica. La “doppiezza” del ceto politico non serve. Non serve dire tagliamo, se poi si sposta l’agenda alle calende greche o si usa il vecchio bianchetto per cancellare voci insignificanti, mentre occorrerebbe la robusta forbice del sarto. Non serve perché la nostra democrazia da tempo non si regge solo sulla gamba delle istituzioni rappresentative. L’opinione pubblica democratica dei media, enormemente rafforzata, e la democrazia delle minoranze attive, sapientemente sostenuta dalla tessitura dalla rete delle reti, invocano, quasi unanimi, un passo indietro sui costi leggendari ed esorbitanti di quei Signori della politica spesso braccati dalla questione morale. Il ceto politico deve prendere atto di questa nuova realtà democratica che non lo vede unico protagonista, seppure dotato di potere legittimo, di autorità. Il gioco di usare questa autorità per i propri interessi e non per quelli del paese rischia di isolarlo ulteriormente nell’opinione pubblica, innescando meccanismi di delegittimazione che il paese non può certo permettersi.
Questo giornale, riscuotendo l’assenso del Presidente della Repubblica, favorevole al confronto e alla verifica qualitativa, ha presentato nove punti per il rigore e la crescita Il nono – the last but not the least – riguarda proprio i costi della politica con proposte ragionevoli e tagli significativi. La politica invece continua a fingere, come se già non esistessero tutte le informazioni utili ad adeguare indennità e numero dei parlamentari alla media europea, come se non si potessero da subito scremare i privilegi nelle spese di funzionamento della politica istituzionale o ridurre gli emolumenti dei governatori delle regioni meridionali, doppi di quelli dei loro colleghi del Centro Nord.I politici usano la loro duplicity come se per dimezzare il numero dei costosi assessori e consiglieri regionali (che pesano il 45% sulla spesa totale del personale politico) o per abolire decine di piccole province o le migliaia di piccoli comuni, occorressero stravolgimenti statutari o costituzionali. Per non parlare degli oltre 7 miliardi che ogni anno vengono assorbiti da aziende, società e consorzi regionali e locali. Quel che manca al ceto politico è la consapevolezza che si sta infilando in un cul de sac in cui rischia di condurre anche il paese.
Ilsole24ore.com – 28 luglio 2011