Ad affermarlo è la Cassazione (sentenza 6148/11). Licenziato, aveva avuto torto dal giudice del lavoro (il suo era stato un atto di insubordinazione). Ma Appello e Cassazione gli danno ragione
Un dipendente di un’organizzazione sindacale rifiuta di andare in trasferta, poiché l’auto aziendale di cui doveva servirsi non è disponibile; l’associazione sindacale lo licenzia ravvisando nella sua condotta un atto di insubordinazione, riconosciuto anche dal giudice del lavoro.
In secondo grado, la Corte d’appello dichiara l’illegittimità della sanzione disciplinare perchè non c’è insubordinazione o inottemperanza delle direttive aziendali, in quanto la condotta contestata è dipesa dall’assenza dell’auto aziendale, di cui il lavoratore ha tempestivamente informato telefonicamente il direttore. Il sindacato, datore di lavoro, ricorre in Cassazione.
Per la Suprema Corte, il giudice ha correttamente osservato come, in virtù del contratto collettivo e di quello individuale, il lavoratore non avesse l’obbligo giuridico di mettere a disposizione la propria auto per sbrigare le trasferte. Inoltre, anche l’accordo provinciale menzionava l’utilizzo del “mezzo proprio” da parte del dipendente, non come un obbligo di quest’ultimo, ma come eventualità. Ma non è tutto. Al dipendente era stata data la direttiva di servirsi di una delle due automobili aziendali esistenti e lo stesso direttore aveva espresso la propria disponibilità, “nel caso di plurime prenotazioni dei due veicoli aziendali”, di favorire il controricorrente nei giorni – fissati di martedì e venerdì di ogni settimana – in cui doveva recarsi in alcune determinate zone, con comunicazione anche all’ufficio amministrazione.
Il lavoratore aveva motivo di fare ragionevole assegnamento sul fatto che, nei giorni prefissati, almeno una delle due auto aziendali fosse a sua disposizione. Il dipendente, pronto per la trasferta, non aveva trovato disponibile alcuna auto aziendale, in quanto entrambe utilizzate per due contemporanee trasferte e dall’intero carteggio tra direttore e dipendente emergeva che non fu mai presa in seria considerazione la possibilità che il lavoratore potesse svolgere la trasferta servendosi dei mezzi pubblici.
Pertanto, concludono i giudici, nel caso in esame, il licenziamento – motivato dal fatto della mancata trasferta – è palesemente illegittimo, per difetto della stessa sussistenza dell’ipotesi di insubordinazione o comunque di inottemperanza alle direttive aziendali; e scorretta e contraria a buona fede va considerata l’insistenza con cui il datore rimproverava al lavoratore di non “aver prenotato” l’uso del veicolo aziendale per i giorni in cui egli era comandato in trasferta in base a comunicazioni scritte già trasmesse agli uffici amministrativi; conseguentemente l’organizzazione avrebbe dovuto accogliere le giustificazioni del dipendente, il quale aveva spiegato come, egli, accertata l’assenza dell’auto aziendale, aveva subito informato della situazione il direttore.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso incidentale del lavoratore per ottenere la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento nonché quello connesso ai danni patrimoniali e non conseguenti alla grave patologia psico-fisica derivante dal licenziamento. Infatti, gli ermellini escludono l’obbligo di riassunzione a carico del datore, in quanto trattasi di associazione e non di imprenditore, svolgente, senza fine di lucro, attività sindacale. Né tanto meno è possibile ravvisare nella fattispecie in esame un caso di mobbing, poiché i disagi del lavoratore erano da ricondurre ad aspetti di carattere generale scaturiti da mutamenti strutturali che avevano interessato l’ambiente di lavoro.
Lastampa.it – 17 giugno 2011