Ci risiamo: come già avvenuto negli ultimi quattro anni, le stime effettuate sul 15% degli apicoltori americani parlano di una morìa di colonie di api attorno al 30% nella stagione invernale appena trascorsa.
Un dato che preoccupa e tiene alto il dibattito sulla sindrome dello spopolamento degli alveari (in inglese Colony Collapse Disorder, CCD) ma che, al tempo stesso, suona come una conferma per chi attribuisce gran parte delle responsabilità della scomparsa delle api all’utilizzo degli insetticidi neonicotinoidi nella concia dei semi del mais, perché dove la pratica è stata sospesa – come in Italia – il fenomeno non ha mai più assunto le dimensioni delle gravi crisi degli anni scorsi.
Lo studio statunitense è stato condotto dallo US Department of Agriculture insieme con gli Apiary Inspectors of America. Sono stati intervistati oltre 5.500 apicoltori che curano circa il 15% del totale degli alveari del paese, presso i quali si contano circa 2,68 milioni di colonie. Il 31% degli interrogati ha risposto di aver perso, tra ottobre 2010 e aprile 2011, una parte molto rilevante delle colonie (con percentuali che arrivano al 60%) senza aver trovato api morte nell’alveare, ovvero di aver riscontrato il CCD; mentre gli altri hanno avuto perdite minori e pari, in media, al 30% delle colonie. Di norma si considera accettabile una perdita del 13% di colonie, ma oltre sei apicoltori su dieci hanno affermato di averne perse molte di più.
Il dato appare ancora più drammatico se confrontato con quelli degli ultimi anni: nell’inverno 2007/2008 la perdita è stata, in media, del 32%, nel 2008/2009 del 29% e nel 2009/2010 del 34%. La sostanziale stabilità, hanno commentato gli autori, è un’assai magra consolazione: dimostra che la situazione non si è ulteriormente aggravata, ma anche che la soluzione del problema è ben lontana.
Sulle cause delle stragi di api negli ultimi anni sono state chiamate in causa moltissime ipotesi: cambiamenti climatici, variazioni genetiche nei parassiti, nei batteri, nei funghi che colpiscono le api, comparsa di nuovi virus, campi magnetici, stress delle api causato dagli spostamenti, sfasamenti ormonali e molto altro ancora.
Ma l’unica idea confortata dai fatti è quella proposta innanzitutto da ricercatori italiani, ossia l’avvento dei neonicotinoidi nella concia dei semi e, in particolare, di quelli del mais. Per capire a che punto è l’Italia, Ilfattoalimentare.it ha posto alcune domande ad Andrea Tapparo, associato di chimica dell’Università di Padova e autore di importanti studi sull’argomento, due dei quali di imminente pubblicazione.
Professor Tapparo, innanzitutto qual è lo stato di salute delle api italiane?
«Buono, direi, perché dal 2009, anno dell’introduzione della sospensiva sull’utilizzo dei neonicotinoidi non abbiamo più avuto la morìa primaverile che avevamo registrato dai primi anni duemila. Oggi la situazione è sotto controllo e le api stanno bene».
Quali sono le prove che suffragano le responsabilità nei neonicotinoidi nella CCD?
«Ve ne sono di diversa natura. Innanzitutto per le modalità con cui si verifica la morte delle api: sopraggiunge improvvisa, in genere uno-due giorni dopo che si è seminato con la concia, fatto incompatibile con infezioni di qualunque natura, che richiedono diversi giorni prima di portare a morte e sono comunque riscontrabili, mentre finora non è emerso nulla di infettivo. Poi c’è la controprova ottenuta con la sospensiva: da quando non è più permesso l’impiego di neonicotinoidi da concia non ci sono più stati in Italia fenomeni di mortalità di massa. Impressionanti, in questo senso, i dati di Apenet del 2010: non c’è stata neppure una segnalazione di impoverimento o morìa, contro le 185 del 2008. Lo stesso sta accadendo negli altri paesi che adottano provvedimenti analoghi, come il land della Baviera e la Slovenia: appena si smette di usare questi composti, le percentuali di mortalità delle api tornano alle medie attese. Ciò detto, è indubbio che anche fattori come quelli indotti dal cambiamento climatico possono avere un ruolo, anche se nessuno di essi sembra importante quanto quello della concia con queste sostanze».
Come si determina l’intossicazione?
«Secondo diversi studi, alcuni effettuati da noi, i neonicotinoidi vengono dispersi nell’aria al momento della semina; la polvere resta attaccata al tegumento (il tessuto di rivestimento esterno) delle api ed essendo solubile viene via via assorbita e si accumula fino a causare, entro poche ore, un’intossicazione letale. Ciò spiega anche perché non si trovano api morte negli alveari, ma se ne trovano molte intorno ai campi dove si è seminato in questo modo: gli insetti non riescono a tornare all’alveare, muoiono prima. L’idea che le api potessero bere i neonicotenoidi dalle piccole gocce di linfa secrete da aperture specializzate delle foglie, proposta qualche tempo fa, oggi sembra meno plausibile, intanto perché i tempi non coincidono (la morìa si verifica in coincidenza delle semine, non qualche settimana dopo, quando effettivamente compaiono le foglie) e poi perché le api in Italia hanno molta acqua a disposizione e bevono linfa solo in circostanze particolari».
In Italia per ora c’è soltanto una sospensiva, che è già stata prorogata e che è in scadenza. Che cosa vi aspettate per il prossimo futuro?
«Non è facile capirlo, anche perché siamo già al secondo ministro dopo Luca Zaia, che aveva accolto le richieste degli apicoltori e investito in progetti di ricerca, istituendo Apenet e autorizzando la sospensiva. La speranza è che la disposizione temporanea si traduca in un vero bando, nonostante le pressioni fortissime in senso contrario delle grandi multinazionali della chimica e dei coltivatori di mais. Vedremo, ma il caso americano – ricordiamo che la California ha dovuto importare api da altri paesi perché non riusciva più ad avere le impollinazioni necessarie di mandorli e pruni – dovrebbe far riflettere sul fatto che in gioco non c’è soltanto la produzione di miele, ma tutto l’ecosistema, e che i potenziali danni causati da impoverimento degli alveari sono enormi, molto superiori a quelli della rinuncia alla concia».
Ilfattoalimentare.it – 7 giugno 2011