L’Enpa ha un centro per la riabilitazione di questi animali con l’obiettivo di cancellare un passato doloroso “e affidarli, a volte, a proprietari pronti a donargli qualche anno di serenità” spiega all’Adnkronos Giovanni Pallotti. Dei 15.000 cani coinvolti ogni anno, un terzo muore sul ‘campo di battaglia’. Un fenomeno che non coinvolge solo camorra, ‘ndrangheta e mafia, ma anche piccoli delinquenti
Roma, 5 giugno (Adnkronos) – Tenuti sospesi nel vuoto ore e ore, mascelle serrate e denti che stringono un pneumatico per non cadere giù, in una buca profonda metri. Lasciati senza cibo e al buio giorni e giorni, per incattivirli e tirarne fuori l’aggressività. “Queste e altre sevizie, tante, troppe, per trasformare un cane in un agguerrito animale da combattimento”, spiega all’Adnkronos Giovanni Pallotti, coordinatore regionale dell’Ente nazionale protezione animali (Enpa) per il Piemonte, a capo del centro torinese che riabilita questi animali, cancellando un passato doloroso “per affidarli, a volte, a proprietari pronti a donargli qualche anno di serenità”.
“Parliamo di pochi anni perché – precisa Pallotti – quando riescono a salvarsi dall’inferno dei combattimenti questi animali non hanno comunque vita lunga. Hanno problemi ai reni, deambulatori, di circolazione. Sono animali che sono stati maltratti, drogati: un passato che lascia il segno, a livello fisico oltre che psicologico”.
Un trascorso che il più delle volte costa la vita. Dei 15 mila cani che ogni anno vengono coinvolti in combattimenti, stando agli ultimi dati Enpa, 5.000 perdono la vita sul ‘campo di battaglia’. Uno su tre, dunque, non ne esce vivo, vittime e protagonisti inconsapevoli di un mercato che frutta alla criminalità organizzata “300 milioni l’anno”, stima Carla Rocchi, presidente Enpa.
Ad essere arruolati “cani con una grande potenza mascellare”, precisa Rocchi, dunque pitbull, rottweiler, bullterrier, American bulldog, mastino e dogo argentino tra i più gettonati. “Ma anche meticci – spiega la presidente dell’Enpa – incroci nati da animali fatti accoppiare proprio con questo fine”. E anche quando non vengono fuori dei ‘campioni’, “vengono utilizzati negli allenamenti, come fossero carne da macello. Per questo io raccomando sempre ai proprietari, anche chi possiede un innocuo e pacifico meticcio, di non perdere mai d’occhio il proprio cane”.
Il giro d’affari sui combattimenti “non poggia solo su mafia, ‘ndrangheta, camorra – spiega poi Rocchi – ci sono anche piccoli delinquentelli che lucrano su questi animali: li allevano, li incattiviscono, li preparano per i combattimenti, puntano su di loro”.
E nonostante le pene si siano inasprite, grazie al provvedimento varato nel luglio 2004, “il mercato continua a fruttare”. Con un ruolo di prim’ordine nel comparto, più ampio, delle cosiddette zoomafie, dove figurano corse clandestine di cavalli, traffico di cuccioli, di fauna selvatica ed esotica.
Per farli crescere aggressivi e pronti alla lotta, gli animali “sono sottoposti fin da cuccioli a un’estenuante allenamento – spiega Pallotti – costretti a correre per molte ore consecutive, picchiati, lasciati per giorni al buio, legati e senza cibo”. I luoghi per i combattimenti sono “discariche abusive, cave, terreni abbandonati, comunque zone isolate alla periferia delle città”.
“Città che spaziano da un estremo all’altro del paese – precisa Pallotti – questo non è, come molti credono, un fenomeno meridionale, ma riguarda anche il Nord Italia”. E, fuori dai confini nazionali, “interessa soprattutto Gran Bretagna, Spagna ed ex Jugoslavia”.
Nel nostro Paese, “la scommessa varia da 250 a 50 mila euro per i combattimenti tra campioni, mentre la partecipazione alla gara frutta al padrone/addestratore decine di migliaia di euro”.
Riportare i cani da combattimento ad una vita normale, quando nel combattimento non ci lasciano la pelle, “è difficile ma non una mission impossible”, assicura Pallotti.
“Si tratta di cani – spiega l’esperto – che non sono aggressivi con l’uomo, bensì con gli altri animali. Per loro inizia un percorso di riabilitazione messo a punto da un team in cui figura anche un veterinario comportamentalista”.
Quando la riabilitazione termina, “alcuni cani vengono dati in affidamento. I padroni, chiaramente, vengono scelti con estrema oculatezza. Questi animali – assicura Pallotti – cessano di essere pericolosi, ma è giusto scegliere con cura le persone che li accoglieranno in casa”.