A leggere i resoconti ormai quotidiani sulle condizioni dei giovani italiani, sembra che l’unico problema (o quasi) sia quello del lavoro temporaneo, ovvero la “precarietà”, frutto delle riforme che hanno introdotto la flessibilità di questi anni.
Degli altri problemi dei giovani, la disoccupazione, il lavoro nero, l’illegalità di molti rapporti di lavoro autonomo, si parla molto meno. Ne risulta un dibattito decisamente sbilanciato, che rischia d’influenzare in modo distorto l’opinione pubblica. Eppure i dati statistici e i risultati di diverse ricerche empiriche non dovrebbero trarre in inganno. Vediamo perché.
I giovani italiani sotto i 30 anni (escludiamo gli immigrati) che hanno un lavoro sono poco più di 2,8 milioni. Un milione e mezzo di questi sono dipendenti a tempo indeterminato (quelli stabili), 800mila a tempo determinato (a termine, apprendistato, interinale, eccetera) e mezzo milione sono autonomi (collaborazioni, professionisti, lavoratori in proprio, eccetera).
Gran parte dei giovani con lavoro temporaneo (800mila), riescono a trovare e a passare a un lavoro stabile in tempi ragionevoli. Prima della crisi, solo il 20% dei giovani con contratto a tempo determinato rimaneva in questa condizione per più di tre anni.
Con la crisi i tempi si sono un po’ allungati. Rimane comunque il fatto che la probabilità di trovare un lavoro stabile è molto più alta per un giovane con un contratto temporaneo che non per un giovane disoccupato o un giovane inattivo. E questa differenza di probabilità è molto più forte in Italia che in altri Paesi. Il che fa pensare, anche se la prova certa non esiste, che i lavori temporanei (quelli a norma di legge) più che “trappole di precarietà”, rappresentino utili esperienze per accedere al lavoro stabile.
Bassa è invece la probabilità che un giovane con lavoro autonomo passi a un lavoro stabile (uno su dieci nel corso di un anno). E sappiamo anche che spesso (quasi la metà) del mezzo milione di questi giovani sono di fatto lavoratori dipendenti “camuffati” da lavoratori autonomi. Spesso – ci dicono sempre i dati Istat – il giovane ha un unico committente, lavora nei locali dell’impresa che lo ha assunto, svolge un lavoro che è organizzato in modo gerarchico e deve rispettare un orario di lavoro.
Si tratta di lavori che di fatto sono subordinati, ma che spesso vengono pagati con retribuzioni infime ben al di sotto dei minimi dei contratti nazionali di lavoro. E senza nemmeno le garanzie assicurative e previdenziali obbligatorie previste per il lavoro subordinato. Questi sono i veri “precari”, ma la loro esistenza non è dovuta alla legislazione che ha introdotto le flessibilità, bensì, paradossalmente, al fatto che quelle norme vengono aggirate e di fatto non osservate.
Dall’altra parte ci sono i giovani che, finiti gli studi, non hanno lavoro. Di nessun tipo. Sono una marea, più di 1,8 milioni. Sono i cosiddetti Neet, cioè i giovani che non studiano né lavorano. Sono tanti quanto sono gli occupati alle dipendenze (2 milioni). Un record assoluto. Un record storico. Un record rispetto a quasi tutti i Paesi sviluppati: solo la Grecia ci batte. Questo sì che è un problema di precarietà!
Di questo 1,8 milioni i disoccupati sono quasi 700mila. Il tasso di disoccupazione (sino a 30 anni) è del 19 per cento. Pochissimi Paesi hanno percentuali più alte. Ma il nostro vero record sono i giovani inattivi, cioè i giovani che non studiano, non lavorano e neppure cercano attivamente un lavoro. Sono 1,1 milioni.
Chi sono, cosa fanno? Lavorano “in nero”? Sono scoraggiati persino dal cercare lavoro. Se ne sa ben poco. Si sa solo che sono tantissimi: il loro numero è superiore a quello dei giovani che hanno un contratto di lavoro temporaneo alle dipendenze. Se avessero almeno un lavoro a termine, un contratto di apprendistato, un contratto di somministrazione, uscirebbero da questo limbo e avrebbero la possibilità, con qualche anno, di approdare a un lavoro stabile.
I Neet sono in tutti i Paesi e tutti i Paesi si stanno preoccupando della loro crescita, soprattutto in questo periodo di crisi. Un fenomeno che può avere effetti deleteri e permanenti sul futuro professionale di questi giovani. Un milione e 800mila giovani sono tanti. Non sono “precari”, e forse nemmeno “bamboccioni”. Forse c’è una terza categoria: “soli e abbandonati”.
Ilsole24ore.com – 23 aprile 2011