Due certezze: gli sconti robusti offerti dalla cedolare secca mettono al sicuro gran parte dei proprietari che concedono una casa in affitto, e che grazie alla tassa piatta non dovranno temere che l’autonomia fiscale lasciata a sindaci e governatori possa peggiorare i loro bilanci rispetto a oggi.
Dall’altra parte della barricata ci sono le imprese che posseggono i capannoni o gli uffici in cui lavorano, gli artigiani e i negozianti (anche in forma di centro commerciale): per questi soggetti le tasse locali federaliste saranno mediamente più alte di quelle di oggi. Per tutti gli altri è una lotteria: il risultato finale dipenderà soprattutto da come sindaci e presidenti di regione vorranno (o dovranno) intervenire sulle addizionali Irpef.
Mentre la maggioranza si concentra sui numeri in bicamerale, contribuenti e associazioni guardano le cifre, molto più mobili, del conto fiscale che potrà essere presentato se la riforma arriverà al traguardo.
Imprese, commercianti e artigiani soggetti all’Irap guardano soprattutto alle regioni, perché il federalismo dei comuni riserva loro solo una ragionevole certezza di aumenti di tasse sui loro immobili strumentali. L’aliquota di riferimento passa dal 6,4 per mille, cioè la media dell’Ici ordinaria attuale, al 7,6 per mille fissato dal decreto per la nuova imposta municipale. Il rincaro medio è del 18,75 per cento, ma diventa più consistente dove l’Ici ordinaria è rimasta più bassa della media: è il caso di Milano, dove l’imposta sul mattone viaggia oggi al 5 per mille, e per arrivare al 7,6 deve aumentare del 52 per cento.
Questi numeri sono il frutto del confronto fra le medie; toccherà prima di tutto ai sindaci cambiare le carte in tavola, perché il decreto lascia loro la possibilità di ritoccare del 3 per mille (in su e in giù) l’aliquota di riferimento. Dove i conti locali lo permettono, l’Imu potrebbe cambiare rotta e ridursi del 28% rispetto all’Ici media di oggi, ma negli altri casi il rischio di aumenti minaccia rincari fino al 130 per cento. Il bilancio finale dipende anche dall’Irap; il decreto sul federalismo regionale spiega che le regioni potranno limare l’aliquota fino ad azzerarla, ma precisa che questa eventuale generosità fiscale non potrà essere compensata da un aumento dei fondi statali.
Per le famiglie, il cuore della partita è l’addizionale Irpef. In comune la bozza di decreto che domani arriverà all’esame finale in commissione prevede un primo sblocco parziale, che riguarda il 44% dei sindaci: complici anche i vincoli agli aumenti (massimo due per mille, senza mai superare il 4 per mille di aliquota totale). Secondo la Cgia di Mestre, la semi-libertà fiscale del 2011 offre ai sindaci aumenti per 351 milioni di euro, ma naturalmente la riforma a regime dovrebbe lasciare la scelta piena agli amministratori locali, anche se non è in discussione il limite massimo dello 0,8 per cento: in quel caso, dal momento che l’aliquota media oggi è intorno al 4 per mille, gli aumenti potenziali potrebbero aggirarsi intorno ai 3 miliardi di euro. È difficile, naturalmente, che tutti i comuni portino al massimo l’aliquota, e l’autonomia fiscale potrebbe anche essere esercitata per abbassare le richieste ai contribuenti, anche se gli amministratori giurano che con i tagli (1,5 miliardi nel 2011, 2,5 l’anno dopo) l’impresa è impossibile.
Ancora più ampio lo spazio di manovra lasciato alle regioni, che dal 2013 potrebbero portare l’aliquota fino al 3 per mille, cioè il triplo della media attuale. Resta da capire, però, come questa possibilità riuscirà a soddisfare l’invarianza complessiva della pressione fiscale chiesta dal provvedimento. In prospettiva, gli aumenti su un gruppo di contribuenti dovrebbero essere compensati da sconti a un’altra fascia, con un meccanismo delicato su cui dovrà vigilare anche il parlamento.
L’assicurazione migliore contro il rischio aumenti, comunque, arriva dalla cedolare secca, che abbatterà il carico fiscale dei proprietari in modo tanto più potente quanto più è alto il reddito dichiarato: una famiglia che offre in affitto un trilocale in città con un canone da 1.250 euro al mese e denuncia 65mila euro di reddito, per esempio, risparmierà quasi 2.100 euro di Irpef, e potrà guardare con più serenità le manovre fiscali di sindaci e governatori. Quando scendono i canoni e i redditi dichiarati, ovviamente, diminuisce anche l’entità dello sconto.
2 febbraio 2011 – ilsole24ore.com