Il Parlamento nazionale, nonostante le diatribe in corso sulla legge finanziaria e la fiducia al Governo, é unito nella corsa per definire il disegno di legge italiana sull’origine dei prodotti alimentari. Perché, di che si tratta, quali sono le prospettive?
Il “Made in Italy” alimentare
Ad avviso delle Confederazioni agricole Coldiretti e Cia, si può parlare di alimenti “italiani” solo quando siano impiegate materie prime autoctone. Una condizione a ben vedere irrealistica, visto che la produzione alimentare italiana già impiega il 70% dei raccolti nostrani (mentre il restante 30% é venduto tal quale, come orto-frutta). Nonostante ciò queste quantità non sono sufficienti – per quantità, qualità e varietà – a soddisfare una produzione di eccellenza che é la terza in Europa (dopo quelle tedesca e francese) ed esporta in tutto il mondo quota considerevole delle sue delizie.
Altre rappresentanze agricole, come Confagricoltura, e molti settori dell’Industria alimentare, evidenziano che l’essenza del “Made in Italy” è costituita dalla maestria delle circa 70.000 imprese di trasformazione che operano nel nostro Paese:
– la progettazione e design del prodotto (a volte legati ai disciplinari DOP, IGP, STG, altre volte propri del “know-how” aziendale)
– l’attenta selezione delle materie prime
– la loro miscela per comporre ricette caratteristiche
– il processo di lavorazione e il controllo qualità
– il packaging e la presentazione finale.
Vincolare il concetto di “Made in Italy” all’origine autoctona delle materie prime è dunque limitativo, oltreché irreale. Sarebbe come affermare che la “italianità” di una Ferrari, o una Fiat 500, sia condizionata all’utilizzo di soli metalli, plastiche, elettronica e componentistica nazionali. Di questo passo, i filati di Loro Piana non si dovrebbero considerare italiani perché realizzati con lane merinos o cachemire, anziché quelle delle pecore nostrane.
Prendiamo il caffè: l’Espresso italiano è rinomato nel mondo e grazie a questa fama torrefattori come Lavazza e Illy, solo per citarne un paio, proiettano nell’intero pianeta l’immagine de “La dolce vita” che si associa alla nostra cultura, al territorio, ai prodotti. Eppure in Italia non esiste traccia di coltivazioni di caffè. Prendiamo un altro esempio, la pasta: da diversi secoli i pastai italiani hanno imparato a mescolare grani duri di diversa origine, al preciso scopo di realizzare prodotti di qualità, con elevato tenore proteico e buona tenuta in cottura. A Gragnano, una delle patrie storiche della pasta, si possono ammirare le stampe del ‘700 che raffigurano navi cariche di “triticum durum” della Crimea (ora Ucraina), sbarcare nel porto di Napoli per rifornire i produttori campani. E allora, vogliamo per questo dubitare della tradizione italiana della pasta di Gragnano?
I lavori in corso al Parlamento italiano
Il progetto normativo, a suo tempo proposto dall’ex-Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali Luca Zaia, mira a introdurre in Italia l’indicazione obbligatoria sulle etichette di tutti i prodotti alimentari dell’origine geografica delle materie prime impiegate nella loro preparazione. La sera del 30 novembre i Capigruppo (vale a dire, tutti i partiti) al Senato hanno concordato di attribuire un “carattere di assoluta necessità” a questo disegno di legge, per accelerarne l’esame che così avverrà durante la sessione di bilancio (cioè nel periodo dedicato all’esame della legge finanziaria).
Il supporto politico a tale iniziativa è completo – da Nord a Sud e da destra a sinistra, passando per il Centro e le Isole – nonostante tutti sappiano che il progetto di legge è incompatibile con il diritto europeo e internazionale, e perciò sarà bocciato dall’Esecutivo comunitario prima ancora di venire attuato.
Si ripete un vecchio copione già messo in scena con la legge 204/2004 (articolo 1-bis), quando il legislatore italiano provò a introdurre l’obbligo di citare l’origine delle materie prime sulle etichette di tutti i prodotti alimentari: già in quel caso la Commissione europea, rilevata l’incompatibilità della norma con l’aquis communitaire, diffidò la Repubblica italiana dall’applicarlo.
Le prospettive
Già sappiamo come questa storia andrà a concludersi: se mai la legge in questione verrà promulgata, la Commissione europea intimerà ancora una volta all’Italia di fermarsi e non darvi applicazione, poiché essa è in manifesto contrasto con le norme comunitarie applicabili all’etichettatura dei prodotti alimentari.
La c.d. “direttiva etichettatura” (dir. 2000/13/CE) prevede infatti l’indicazione dell’origine solo a titolo volontario per la generalità dei prodotti. Tale indicazione è d’altro canto obbligatoria per determinate categorie di alimenti oggetto di normative europee di settore (es. orto-frutta, carni bovine, uova, miele, prodotti ittici freschi, “bio”).
La “direttiva etichettatura” neppure cita la provenienza delle materie prime, poiché l’origine del prodotto – in virtù del c.d. Codice doganale comunitario (reg. CE n. 450/08) e di quanto stabilito nell’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio – si identifica nel luogo ove è avvenuta la sua ultima trasformazione sostanziale.
Il disegno di legge che il Parlamento italiano si affretta ad approvare non ha perciò alcun futuro, e se mai questo o un prossimo Governo proveranno ad applicarlo la Commissione europea non esiterà ad aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Niente di nuovo insomma: i politici di ogni fazione potranno congratularsi con gli elettori per gli “sforzi” compiuti – nell’approvare un documento che tutti, sin da principio, sapevano del tutto privo di applicazione concreta – e potranno scaricare ogni colpa sull’Europa. Viene solo da chiedersi, giacché di legge finanziaria in questi giorni si tratta, se la politica italiana ha davvero tante risorse da disperdere invano.
L’unica, vera prospettiva di modifica delle regole vigenti sull’indicazione d’origine è invece offerta dalla proposta di regolamento UE per l’informazione al consumatore relativa ai prodotti alimentari, tuttora in discussione al Parlamento Europeo e al Consiglio.
ilfattoalimentare.it
6 dicembre 2010