Sono allevatori, macellatori, alimentaristi zootecnici e veterinari le diciotto persone per cui il pubblico ministero Ciro Alberto Savino ha chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sui bovini “dopati”. Un giro d’affari che si estendeva dal Nord al Sud d’Italia e che gonfiava illecitamente il bestiame utilizzando anabolizzanti e cortisonici, sostanze cancerogene e pericolose per la salute. Le accuse per gli indagati sono, a vario titolo, adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari, commercio di sostanze alimentari adulterate, commercio di medicinali pericolosi e loro somministrazione, esercizio abusivo della professione di veterinario e farmacista, favoreggiamento, falso ideologico, abuso d’ufficio, truffa ai danni dello Stato e peculato. In tutto si tratta di 26 diversi capi di imputazione per indagati delle province di Rovigo, Padova, Ferrara, ma anche Perugia e Mantova.
L’avviso di chiusura indagini, notificata nel maggio scorso, aveva riguardato ventidue indagati. Per una di loro il Pm ha chiesto l’archiviazione, mentre altri tre hanno intrapreso la strada del ricorso a riti alternativi. Le posizioni per cui Savino chiede il processo sono quindi le diciotto rimanenti.
La richiesta di fissazione dell’udienza preliminare arriva a distanza di quasi cinque anni dall’inizio delle indagini. L’inchiesta, infatti, che era stata condotta dai carabinieri del Reparto operativo di Rovigo e da quelli del Nas di Padova, era iniziata nel 2005. Il 12 ottobre del 2007 erano scattati gli arresti per sette persone e la denuncia per altre 17. Da allora il lavoro della Procura è continuato, tanto che al primo troncone delle indagini si erano aggiunti, nel tempo, altri accertamenti tesi a verificare ulteriori responsabilità, anche nei livelli gerarchici superiori dell’Ulss 19, l’azienda sanitaria più toccata dall’inchiesta, con tre veterinari dipendenti indagati, tra cui Roberto Crepaldi, già responsabile del servizio Sanità animale e nello stesso tempo proprietario di due allevamenti nei dintorni di Adria, che è ritenuto il fulcro dell’organizzazione. Ma sostanzialmente, al di là di qualche variazione riferita ad un paio di posizioni, l’impianto accusatorio è rimasto sostanzialmente immutato. L’operazione, partita da una segnalazione ai carabinieri del Reparto operativo di Rovigo, era stata denominata Desa, da Desametasone, il farmaco cortisonico utilizzato per ingrassare i bovini e impiegato dall’organizzazione insieme a un altro medicinale, il Clembuterolo e a due anabolizzanti, Testosterone e Nandrolone. Al centro dell’indagine una catena che puntava a “gonfiare” illecitamente i bovini usando quelle sostanze per risparmiare tempi di allevamento e denaro. Bestiame che veniva macellato e finiva sul mercato con gravissimi rischi per i consumatori. Perquisizioni, sequestri sanitari (oltre 5mila bovini), prelievi, analisi eseguite dal laboratorio dell’Istituto zooprofilattico sperimentale di Legnaro, interrogatori e altri accertamenti avevano permesso di smascherare una rete completamente abusiva costituita da mediatori, alimentaristi zootecnici, allevatori e veterinari in cui ciascuna delle persone coinvolte aveva un ruolo ben preciso.
Ecco come funzionava l’organizzazione secondo la Procura
Un’organizzazione in cui ciascuno aveva un proprio ruolo: chi era incaricato di comprare all’estero le sostanze proibite, chi di preparare i prodotti, mentre gli allevatori, tenendo le forniture di farmaci illeciti ben nascoste (anche sotto terra), le somministravano infine al bestiame. Il pubblico ministero Ciro Alberto Savino ha chiesto il rinvio a giudizio per Claudio Anali, mediatore di bovini di Monselice; Maurizio Angeli rappresentante di prodotti zootecnici di Boara Polesine; Vincenzo Boccia, napoletano residente a Mantova; Franca Bozza, di Boara Polesine; Giulio Francese, macellatore di Agna (Padova); Hakim Hormi di Mesola (Ferrara); Angelo Longhin, macellatore di Piove di Sacco (Padova); Ulisse Marcato di Correzzola (Padova); Patrizio Menato, allevatore di Mesola; Nicola Mezzanato, allevatore di Porto Viro; Massimo Oliviero di Ariano; Gino Miotto di Codigoro (Ferrara); Attilio Piselli, allevatore di Perugia. A loro si aggiunge il veterinario Roberto Crepaldi di Adria, già responsabile del servizio Sanità animale dell’Ulss 19 e nello stesso tempo proprietario di due allevamenti nella zona, controllore e controllato, quindi, che gli inquirenti ritengono la mente dell’intera catena. Inoltre il Pm chiede il processo per altri tre veterinari, tutti all’epoca in servizio all’Ulss 19: Roberto Scarparo di Adria, Matteo Braga, già convenzionato con l’azienda sanitaria, di Porto Tolle, e Nicola Tiengo, di Porto Viro. Stessa richiesta per un tecnico della prevenzione dell’Ulss 17 in servizio a Conselve, Fabio Mingardo di Monselice, che è accusato di aver avvertito le aziende dell’arrivo delle ispezioni veterinarie. Ai dipendenti sanitari sono contestati reati come favoreggiamento, falso ideologico, abuso d’ufficio, truffa ai danni dello Stato. Tiengo sarebbe stato indagato in un momento successivo per peculato.
Il Gazzettino di Rovigo
17 novembre 2010