L’infezione connessa al cibo è ancora più terrorizzante quando è artificiale, autoinflitta, creata dall’uomo contro se stesso
Il cibo è vita, la vita è salute ma anche malattia, la malattia è talvolta morte. il flusso, il magma informativo, assorbe e fagocita nel suo limbo venefico l’intera trinità di vita, malattia e morte. senza distinzioni. E del resto la spettacolarizzazione di tutto ciò che riguarda le nostre funzioni vitali, il sempiterno alternarsi dialettico di scoperte scientifiche, l’avvicendarsi nel nostro immaginario delle informazioni volte a salvaguardare il benessere e la salute comune, il continuo rimodellamento delle nostre credenze, l’ordalia igienista di ciò che fa bene o fa male, è una ronzante colonna sonora alle giornate di ognuno. Inserti, riviste specializzate, rubriche, fondamentalisti dell’ambiente e multinazionali della carne in concorrenza, farmaci, leggi di mercato, assurdi, tardivi, parziali, disperati rigurgiti di coscienza. Del resto, la vita è consumo, e il consumo è il sistema, e il sistema siamo noi. Non si tocca. Non si deve mai fermare. Non ci dobbiamo mai fermare. Ma c’è un margine al rigenerarsi vaporoso del flusso informativo. Smette di esistere, per il singolo individuo, quando il nebuloso via vai delle parole si misura con la realtà di un male incurabile che colpisce fulmineo e letale. E a quel punto non resta niente, se non la sofferenza, e la realtà su cui tutti si affannano a confabulare, profetizzando micragnose verità, torna a essere ciò che è davvero nel profondo, un gigante bifronte nei cui lineamenti trovano posto, al contempo, il bene più paradisiaco e il male più sordido. C’è tutto questo nella storia incredibile di Clare Tomkins, vegetariana dall’età di 11 anni e vittima a 24 della malattia di Creutzfeld-Jacob, il morbo della mucca pazza. E c’è tutto questo nelle densissime, splendide pagine di Bloody Cow di Helena Janeczek (Il Saggiatore 2012), reportage sanguigno e sentito su una delle grandi psicosi collettive dei nostri tempi: l’infezione connessa al cibo, ancor più terrorizzante quanto è artificiale, autoinflitta, creata dall’uomo contro sé stesso. Pagine in cui lo stile plasma il contenuto e da esso è plasmato, in un susseguirsi ininterrotto e quasi sacrale di visioni, ricordi e riflessioni su tutto ciò che la carne e il suo consumo come alimento comunica, simboleggia, personifica. C’è l’ignoto sotto gli occhi di tutti, cui è difficile credere: «Attenzione ci hanno detto, nel nostro paese circola una quantità imprecisata di carne clandestina proveniente da macelli clandestini di cui un numero ignoto si trova in Campania (…) è difficile immaginari un macello clandestino, non il macello dentro, il macello non lo voglio neanche immaginare, la sua clandestinità, le bestie che non si vedono, i gridi che non si sentono, la puzza di sangue e scarti che non ristagna, lo sporco e il marcio che non attira i topi, i randagi, le mosche, i parassiti, i topi. Nessuno, d’accordo, vedendo un quarto di bue pensa che possa essere illegale, e tanto meno ti viene in mente che le mucche sul camion appena superato siano di contrabbando, né che un odore mefitico non abbia una ragione, è pieno di puzze e di vapori velenosi perfettamente regolari, ma è difficile pensare a quei macelli con la gente che fa finta di niente». E c’è il subconscio suggeritore, l’autocoscienza azzerante che risolve l’indecidibile realtà, complessa ben oltre il nostro potenziale di decodifica, resa poliforme e inintelligibile dal furore informativo: «dietro il nostro terrore della mucca pazza, questo terrore ormai quasi evaporato come un incubo da indigestione, non c’è stato niente, niente e nessuno, nessuna multinazionale della soia transgenica, nessuna lobby di allevatori di pollame, niente manovre oscure da parte degli americani, nessuno e niente oltre a noi, e credo che in fondo lo sappiamo. Noi che in fondo sappiamo che si muore per farci mangiare, noi che sappiamo che si muore anche di fame, noi che sappiamo che moriremo ma non di fame, in fondo crediamo che moriremo di cibo». E poi c’è l’esperienza vera, concreta, a volte drammatica, che spezza il flusso e ci fa ritornare deboli, insicuri, massimamente umani: «e se è per questo che mi sono andata a cercare Clare Tomkins, credo di doverle anche qualcosa. Le devo prima di tutto una correzione, perché evidentemente non è vero che per vivere nel bene ci vuole una fede assoluta nel dominio del male, né bisogna essere santi o santoni, basta avere una fiducia lineare, una fiducia media e volendo anche mediocre, una fiducia middle-class come quella di Clare Tomkins, che dall’età di undici anni avrà sempre saputo quello che voleva nella vita, anche se quello che voleva erano una casa simile alla sua e una famiglia simile alla sua, una casa con giardino, bambini, cani e gatti e magari altri animali. Basta questo. Basta pure per rendere la notizia che è morta e di come è morta ancor più insopportabile». Basta questo, è proprio vero.
L’Unita – 6 novembre 2012