I rettori si lamentano perché il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) non riesce a coprire neppure la somma delle spese fisse e chiedono sovvenzioni “per un sistema che sta precipitando minando lo sviluppo del Paese”. Un’indagine di Federconsumatori rivela: “Tasse più esose, soprattutto per i meno abbienti”
Mentre i rettori si lamentano per un “sistema universitario italiano che sta ormai precipitando in una crisi irreversibile tale da minare l’immagine internazionale del Paese e le sue prospettive di sviluppo”, gli studenti si trovano di fronte all’ennesimo rincaro delle tasse. Quasi tocchi a loro pagare per le inefficienze e la scarsa qualità dell’intero sistema accademico. Una deduzione forse un po’ azzardata, ma che restituisce in parte un meccanismo che sarebbe altrimenti di difficile comprensione.
Perché, stando all’allarme lanciato dai rettori al mondo dell’università, servirebbero almeno 550 milioni di euro affinché si possa tornare competitivi in Europa in materia di formazione. Questa mancanza di fondi infatti ha prodotto negli ultimi quattro anni una riduzione del numero di docenti e di ricercatori di oltre il 10%; il permanere del blocco del turn-over, fissato al 20% dalla legge di spending review, oltre a ridurre ulteriormente e in misura “intollerabile” il ricambio degli organici dei docenti (le università si troveranno prive di docenti di prima fascia che, negli ultimi 4 anni, si sono ridotti di oltre il 20%).
Rette più alte per gli studenti. Traduzione: abbassamento della qualità della didattica e dei servizi per gli studenti. Che però, stando alla terza indagine di Federconsumatori 1 sulle rette degli Atenei italiani, si trovano a pagare tasse più salate: secondo i dati raccolti dall’associazione
dei consumatori, calcolati in base ai modelli e alle formule riportate sui siti web dei più grandi atenei della penisola, le rette scolastiche sarebbero aumentate mediamente del 7% rispetto allo scorso anno, pari a un aggravio di 70,68 euro. E quel che più stupisce è che a pagare il prezzo più alto sarebbero gli studenti inclusi nelle fasce di reddito più basse. Considerando la media nazionale dell’importo per la prima fascia (calcolata fino a 6 mila euro di reddito Isee), l’aumento è stato dell’11,3%, per la seconda fascia (reddito Isee fino a 10 mila euro) è stata del 10%, mentre scende al 2,8% per chi fa parte della terza fascia (fino a 20 mila euro di Isee). I costi della penultima fascia crescono invece dell’1,1%, quelli dell’ultima del 5,5%. Secondo l’associazione si tratta di “aumenti che non favoriscono la formazione dei giovani e che dimostrano la scarsa volontà di investire nel futuro del nostro Paese”.
Atenei più cari al nord Italia. Sempre secondo i dati dell’indagine, sono gli Atenei del nord Italia quelli in cui si registrano le rette più costose. Rispetto alla media nazionale costano l’8,4% in più se si prende in considerazione la fascia di reddito più bassa e il 30,42% in più se si considera invece la fascia più alta. Unica eccezione è rappresentata dall’università del Salento che impone tasse alle prime due fasce particolarmente alte, anche se va detto l’Ateneo adotta un sistema che prevede la riduzione in base al reddito con parametri Isee e un ulteriore sconto del 50% in base alla media dei voti ottenuti. Il primato per la retta più cara, però, va all’Università di Parma. Per frequentarla gli studenti devono pagare tasse annuali minime di 931,92 euro per le facoltà umanistiche e di 1047,74 euro per quelle scientifiche.
L’incidenza dell’evasione sul calcolo Isee. Poiché il calcolo delle tasse universitarie si basa sulla dichiarazione dei redditi, sottolinea Federconsumatori “non si può non considerare la grave incidenza dell’evasione fiscale”. Secondo Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori, “questo fenomeno, unito alla diminuzione degli investimenti destinati alla pubblica istruzione, sta facendo crescere progressivamente il numero di studenti che rientrano nelle fasce più basse, provocando quindi una diminuzione delle risorse da distribuire: ad essere penalizzati, quindi, saranno coloro i quali hanno davvero bisogno di usufruire dell’istruzione pubblica senza spendere una fortuna”. Sono infatti numerose le famiglie monoreddito di lavoratori autonomi – dai gioiellieri ai ristoratori – che rientrano nella seconda fascia Isee considerata e che quindi pagano contributi relativamente bassi. Il paradosso è che “in questo modo il figlio di un operaio specializzato finisce per pagare imposte superiori a quelle che vengono richieste al figlio di un orafo o di un pellicciaio” conclude Rosario Trefiletti.
(28 ottobre 2012) – Repubblica