Altro che rilanciare il polo di Mirandola. Colpite al cuore dal terremoto in Emilia, rimaste all’asciutto di risorse per la ricostruzione, le imprese italiane del biomedicale, che proprio a Mirandola hanno creato il miracolo di una vera e propria eccellenza italiana, sono state prese di mira anche dalla legge di stabilità del Governo.
Oltre un miliardo di nuovi tagli, proponeva ieri il Ddl del Governo approdato sui tavoli del Consiglio dei ministri. In aggiunta ai quasi 2 miliardi già svaniti con la spending review di luglio, varata proprio due mesi dopo il terremoto. E chissà se la posizione contraria del ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha portato poi a più miti consigli i colleghi di Governo. Sull’altare della “buona spesa pubblica”, che da sempre e giustamente vede la sanità nell’occhio del ciclone, si rischia infatti di consumare un male peggiore di quello che si vuole curare. Con potenziali, pericolosi effetti per la salute dei cittadini. E con ricadute devastanti sull’intera filiera produttiva della sanità e sull’occupazione di settore.
Come è accaduto a più riprese per la farmaceutica. E come ora si sta insistendo a fare con colpi ripetuti alle imprese del biomedicale che operano in Italia. Quelle che, per dire, riforniscono il servizio sanitario di tac, risonanze magnetiche, pace maker, reagenti di laboratorio, siringhe, protesi, pannoloni. Tutto ciò che fa marciare la macchina sanitaria insomma, certo, a volte con modalità e prezzi d’acquisto fuori le righe. Ma a tutto c’è un limite.
E colpire e casaccio non paga. Le imperfezioni della spending review sono sotto gli occhi di tutti e gli stessi amministratori locali non sanno come districarsi nel ginepraio che s’è venuto a creare. Mentre le imprese lamentano ritardi di pagamento da record mondiale. In media il servizio sanitario onora le fatture in 292 giorni. Ma in Calabria ce ne vogliono 951, in Molise 879, in Campania 748 e 343 in Puglia. Mentre la Lombardia paga in 99 giorni e il piccolo Trentino in 89 giorni. Ma che dire della asl di Napoli centro che rimborsa i fornitori del biomedicale in 1.836 giorni, ben 5 anni? E dell’azienda ospedaliera «Federico II» (sempre a Napoli) che ne impiega 1.675, dell’ospedale «San Sebastiano» di Caserta dove i giorni di ritardo dei pagamento sono 1.419? Intanto il credito in sospeso delle imprese biomedicali è salito a quasi 5,2 miliardi. Altro che rilancio, altro che spinta all’innovazione, altro che premiare l’eccellenza e l’hi-tech che ci invidiano.
Se poi si pensa, al peggio non c’è mai fine, che intanto sempre con la legge di stabilità (addirittura in contemporanea col “decretone sanitario” di Balduzzi) è spuntata anche per tutto il 2013 la proroga di un anno del blocco dei pignoramenti nelle Regioni sotto piano di rientro. Una batosta in più, proprio lì dove i crediti (e i debiti) salgono vertiginosamente. Per l’intera filiera produttiva della sanità, c’è il rischio concreto di black out. Per chi produce i beni e per l’occupazione, tanto che nel biomedicale si stima la perdita di 10mila posti di lavoro. Ma anche per i produttori di servizi (ospedalieri e ambulatoriali), col rischio di un crollo delle prestazioni sanitarie sia in termini di qualità (meno attrezzature o attrezzature di peggiore qualità), sia in termini quantitativi (crescita delle liste d’attesa, impatto sulla rete ospedaliera pubblica con incremento di costi). A meno che qualcuno non preferisca buttar via il bambinello con l’acqua sporca.
di Roberto Turno (da Il Sole-24 Ore) – 10 ottobre 2010