Poi stress e insoddisfazione prendono il sopravvento. «Il denaro, da solo, non basta a motivare i dipendenti». Gli esperti: in Italia sempre più persone rifiutano l’avanzamento
Trentasei mesi per godersi la promozione sul lavoro. Per sentirsi realizzati. Poi più nulla. Prendono il sopravvento l’ansia, lo stress, gli orari prolungati, le troppe responsabilità, lo stipendio che non soddisfa. Fino ad arrivare addirittura a pentirsi, magari dopo tanta fatica, di aver detto sì a quell’offerta dei vertici dell’azienda di salire di livello.
«La promozione sul lavoro ci fa bene?», si sono chiesti due ricercatori australiani, David Johnston e Wang-Sheng Lee. La risposta arriva in fondo alle trenta pagine di un’indagine appena pubblicata dall’Istituto per gli studi sul lavoro di Bonn: no. Salire di livello, nel medio e lungo periodo, si trasforma in un boomerang. La nostra salute peggiora, ci sentiamo sempre meno appagati e non vediamo l’ora che le cose cambino. Se poi si tratta di giovani e maschi gli effetti negativi sono ancora più profondi.
Per realizzare lo studio i due esperti hanno utilizzato undici indicatori: il controllo, lo stress, la sicurezza, la retribuzione percepita e quella reale, le ore di lavoro, la soddisfazione generale, la salute, la vitalità, la serenità e il grado di realizzazione nella vita. I dipendenti delle aziende – oltre mille – sono stati intervistati prima e dopo la promozione. E le loro risposte messe insieme e sintetizzate in tabelle e un grafico a tre curve. «Da un punto di vista della tranquillità e delle motivazioni – sostengono i due ricercatori – le promozioni sul lavoro rendono le persone, nel medio e lungo periodo, più nervose e meno incentivate a fare bene». Così, se la voce «soddisfazione lavorativa» raggiunge il picco nove mesi dopo la promozione, dopo poche settimane quella curva crolla. Il tasso di stress derivante dalla nuova posizione, invece, è sempre in salita.
«Questi dati dimostrano che il denaro, da solo, non basta a motivare i dipendenti», spiega Andrea Castiello D’Antonio, psicologo del lavoro e docente universitario. «A pesare molto sono le aspettative dell’azienda, quelle del singolo lavoratore e i nuovi capi con cui hai a che fare: se queste cose, insieme, non si incastrano bene allora tutto gira verso il peggio». Il contesto economico attuale, aggiunge Castiello D’Antonio, «non aiuta: chi oggi viene promosso a un ruolo di maggiore responsabilità si aspetta di avere a disposizione una serie di mezzi che però non ci sono più. E allora ecco che aumentano la frustrazione, l’insoddisfazione e avanza quasi un senso di pentimento». E si arriva così a un paradosso. «Da alcuni mesi», racconta Castiello D’Antonio, «ci sono persone che lavorano come quadri e che rinunciano alla promozione a dirigente: preferiscono mantenere l’attuale status per non dover andare incontro a una situazione più stressante e instabile». La tendenza è confermata anche da Paolo Citterio, presidente dell’Associazione nazionale dei direttori delle risorse umane. «Oggi un dirigente deve operare non avendo a disposizione quasi più né l’auto aziendale né le spese di rappresentanza. Per andare a pranzo con un cliente, in certe imprese, devi pure essere autorizzato», aggiunge. «Una situazione che di certo non incentiva a lavorare bene e in serenità». La «regola dei tre anni» che fa intendere la ricerca dei due studiosi australiani Citterio dice di applicarla dal 1968. «Ogni 2-4 anni io ho sempre cambiato posizione lavorativa», racconta. «Anche se oggi non è più così facile».
Il sociologo Domenico De Masi, invece, attacca la tempistica delle promozioni. «Quasi sempre avvengono in modo intempestivo: o troppo tardi o troppo presto», dice. E introduce anche un elemento psicologico: «Nel momento in cui uno avanza di carriera, il nuovo potere diventa automaticamente meno appetibile di prima. Di fatto, dopo alcuni mesi, uno pensa già a come scalare un altro gradino all’interno dell’azienda: non ha più voglia di dare il massimo in quel ruolo e non vede l’ora di andarsene. E se non lo fa, diventa l’uomo più triste del mondo».
17 luglio 2012 – Corriere.it