Non rientrano nel concetto di normale pratica industriale le attività che comportano trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 1095/12 del 10 maggio 2012, che, nell’ambito del ricorso presentato contro una sentenza della Corte di appello di Brescia, ha chiarito come debba essere interpretata la nozione di trattamento ai fini della qualificazione di un residuo produttivo come sottoprodotto.
La normativa in materia di rifiuti, infatti, consente di escludere dal proprio campo di applicazione gli scarti di un processo produttivo quando questi possano essere considerati come sottoprodotti e, a tale scopo, conformemente a quanto disposto dalla direttiva quadro in materia, impone la necessità di dimostrare la sussistenza di una serie di condizioni, indicate nell’articolo 184 bis del codice ambientale (decreto legislativo n.152/06).
Tale norma, in particolare, dispone che è sottoprodotto e non rifiuto qualsiasi sostanza o oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni: la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana; la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
La giurisprudenza nazionale e comunitaria ha più volte chiarito come l’analisi volta a determinare se un residuo sia da classificare come rifiuto o come sottoprodotto debba essere effettuata in concreto e caso per caso. La mancanza, però, di specifici riferimenti relativi alla nozione di trattamento e di normale pratica industriale, elementi centrali della valutazione, ha determinato, fino ad ora, difformi prassi applicative ed interpretative, con conseguente incertezza per gli operatori.
La sentenza della Corte di Cassazione, quindi, consente di definire con maggiore precisione l’ambito di applicazione della disciplina. Nella pronuncia viene chiarito, in particolare, che rientrano nella nozione di trattamento le attività che comportano un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche delle sostanze.
Al fine di comprendere, quindi, quando detto trattamento rientri o meno nella normale pratica industriale si ritiene che debbano essere esclusi da tale nozione tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale viene utilizzato. Sulla base di tale lettura, quindi, la Corte di Cassazione considera conforme alla normale pratica industriale quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire.
ilpuntocoldiretti.it – 29 maggio 2012