Strane regole nell’imposizione fiscale: non solo i benestanti, ma anche le classi medie e medio basse contribuiscono alle entrate dello Stato in modo assai pesante.
l risanamento del bilancio pubblico italiano sta avvenendo principalmente attraverso l’aumento dell’imposizione fiscale. Questo è un dato di fatto ormai inconfutabile e che ha portato la pressione fiscale a livello inaudito, specialmente sulle spalle dei contribuenti onesti. Inoltre, l’apparato di riscossione, sia normativo che operativo, si è caratterizzato per un eccesso di zelo che ha provocato reazioni ingiustificabili e deprecabili, ma che configurano un rapporto Stato cittadini malsano, con questi ultimi spesso ridotti al rango di sudditi. Tuttavia, qui si vuole affrontare un nuovo trend che va sotto il nome di “Rivoluzione del Welfare”, che il governo vuole attuare prossimamente per “razionalizzare” la spesa socio assistenziale.
Lo spirito della “Rivoluzione” sarebbe quello di ottenere risparmi riducendo le prestazioni a coloro i quali hanno maggiori redditi e patrimoni e aumentandole a coloro che si trovano in situazioni economicamente peggiori. Per far questo la bozza del decreto ministeriale prevede di rivedere la base di calcolo dell’Isee (l’indicatore della situazione economica familiare), composto da redditi, rendite e proprietà e che oggi serve per attribuire il diritto alla prestazione gratuita di una serie di servizi come gli asili nido, l’assistenza domiciliare, i libri di testo gratuiti, gli assegni di maternità, il diritto allo studio universitario, gli assegni peri nuclei familiari numerosi, le mense scolastiche.
La parte più controversa della proposta è quella di assicurare la gratuità di alcune prestazioni attualmente garantite a tutti (come gli assegni di accompagnamento agli invalidi), solo a chi ha un reddito inferiore a 15.000 euro, introducendo decurtazioni progressive (o contributi crescenti) oltre quella soglia.
Il sistema si estenderebbe anche ad altre fattispecie come le borse di studio o le tariffe energetiche agevolate, prevedendo una specie di ticket a carico di chi usufruisce del servizio. Infine è allo studio una riforma del sistema sanitario che si muoverebbe secondo le direttrici di far pagare a tutti (salvo ad una fascia esente di percettori di redditi bassi) una percentuale dei propri guadagni annuali per godere dell’assistenza medica. Alternativamente, potrebbe essere instaurato un tariffario delle stesse differenziato a seconda del reddito. Orbene, a me sembra che sia in vigore una strana regola, vale adire che non solo i benestanti, ma anche le classi medie e medio basse, contribuiscono alle entrate dello Stato e alla spesa pubblica in modo assai pesante (basti pensare che a partire da 28.000 euro di imponibile già si subisce la pesantissima aliquota Irpef de138% cui vanno aggiunti gli onerosi contributi previdenziali) e dopodiché, invece di godere di quei servizi peri quali pagano le imposte in modo da renderli disponibili a tutti, viene loro chiesto di sobbarcarseli una seconda volta.
La tendenza è già abbondantemente presente nel nostro ordinamento egli esempi sono molteplici. Le detrazioni fiscali per il coniuge e i figli a carico, ad esempio, sono decrescenti man mano che sale il reddito e sono eliminate oltre la soglia rispettivamente di 80.000 e 95.000 euro. Stesso discorso si applica, ovviamente, per gli altri familiari. Anche le detrazioni per il lavoro dipendente sono godibili per ammontati decrescenti (partendo da 1338 euro) fino a scomparire del tutto per i redditi superiori a 55.000 euro. Un meccanismo molto simile viene applicato alle deduzioni per il lavoro autonomo, per l’Irap degli imprenditori e l’affitto per l’abitazione principale. Alcune spese, come si sa, sono detraibili: spese sanitarie, per l’assicurazione sulla vita, funerarie, per l’istruzione secondaria e universitaria, le attività sportive dei ragazzi, gli interessi sui mutui e così via.
Tuttavia, solo il 19% di quanto si è speso è detraibile dalle imposte pagate dal contribuente. Se invece l’intero costo venisse detratto dall’imponibile, il nostro amico con 30.000 euro di reddito potrebbe risparmiare ben il 38%, cioè l’equivalente della sua aliquota marginale.
Delle borse di studio per l’università è possibile usufruire non solo per requisiti di merito, ma anche se le condizioni economiche dello studente o della sua famiglia non eccedono certi limiti stabiliti secondo i parametri Isee. A ciò si aggiunga che tutti gli atenei prevedono rette differenziate a seconda del reddito familiare dello studente. Le regioni che concedono il buono scuola agli allievi delle scuole private, poi, lo fanno ancora una volta solo per chi vive in nuclei familiari che non superano un determinato tetto di guadagni. Dei servizi sociali oggetto della riforma si è già detto, ed anche oggi è possibile avvalersene gratuitamente solo sotto un certo livello di ricchezza.
Ha senso tutto questo? In parte si. Infatti l’idea che i servizi forniti dallo Stato debbano essere almeno in parte pagati migliora l’allocazione delle risorse ed evita due fenomeni ugualmente inefficienti: il razionamento (se le risorse pubbliche si esauriscono) e il consumo esagerato (quando i pasti sono gratis si tende a fare indigestione). Un moderno welfare state dovrebbe provvedere alla gratuità di tali servizi solo per le fasce di popolazione deboli. Il ragionamento non vale però per le detrazioni fiscali e presupporrebbe delle aliquote Irpef molto appiattite e non altamente progressive come sono oggi (i redditi più alti, grazie alla manovra ferragostana, tra Irpef, addizionali comunali e regionali e la sovrattassa del 3% arrivano a pagare il 46%).
Infatti si verifica il paradosso che chi percepisce un salario lordo medio basso (diciamo 30-35000 euro all’anno), non solo contribuisce di più al sostentamento dei servizi pubblici grazie al 38-39% della sua aliquota, ma si trova a doverli pagare due volte. Ciò, oltre ad essere iniquo, è inefficiente in quanto costituisce un potente disincentivo a cercare di migliorare la propria condizione economica. Peraltro, mentre si continua a ripetere giustamente che bisogna diminuire le tasse sui redditi da lavoro e quelli d’impresa per spostarle sui consumi, l’andazzo sembra esattamente l’opposto. Ma, si dirà, se si procedesse ad un abbassamento generale delle aliquote potrebbero mancare delle fonti di gettito fiscale. Appunto, si proceda con una seria spending review, si scovino gli evasori e per favore evitateci la sorpresa di trovare in drogheria 3 prezzi diversi dello stesso prosciutto a seconda del reddito familiare.
Alessandro De Nicola – Repubblica – 21 maggio 2012