«I test sugli animali sono indispensabili per sperimentare farmaci e salvare milioni di vite umane». Un articolo di Ignazio Marino sull’Espresso suscita vivaci polemiche e reazioni tra gli animalisti. Che cosa ne pensate?
Pubblichiamo qui di seguito l’ultima rubrica “Questione di vita” di Ignazio Marino, uscita sull’Espresso venerdì scorso. L’opinione di Marino – che come noto è un medico prima ancora che un politico – ha suscitato vivaci polemiche sia on line sia off line, e reazioni particolarmente forti da parte di molti lettori animalisti. Qui la replica a Marino di Claude Reiss, per 35 anni direttore di ricerca in biologia molecolare al Cnrs, autore di centinaia di paper scientifici sul tema e consulente, fra gli altri, del programma europeo Reach.
Nel 1992 ho ucciso un babbuino. Lavoravo negli Stati Uniti dove studiavamo la possibilità di trapiantare organi di animali per salvare vite umane e superare in questo modo il problema della carenza di donatori. Il 28 giugno di quell’anno eseguimmo il primo trapianto di fegato da babbuino a uomo e oggi, a vent’anni di distanza, penso si trattasse di una strada sbagliata: il sistema immunitario degli uomini e quello dei babbuini non sono compatibili, nemmeno utilizzando i farmaci antirigetto più potenti. Ma non rinnego nulla, quegli esperimenti sono serviti per perfezionare una terapia che oggi permette di salvare centinaia di migliaia di malati terminali.
Il rispetto per ogni essere vivente è un dovere, eppure i test sugli animali sono indispensabili e purtroppo non ancora sostituibili con metodi alternativi, e questo vale per tutti i farmaci e i vaccini. Rigorose regole internazionali vietano, infatti, di somministrare a un uomo una medicina se non è stata testata su due specie animali, una delle quali non può essere un roditore. Vanno verificate la tossicità, le reazioni sul metabolismo, gli effetti sulla gravidanza e tantissimi altri aspetti. Per tutelare la nostra salute e la nostra sicurezza.
E quella degli animali? Per troppo tempo a causa di un atteggiamento irresponsabile il loro interesse non è stato considerato e per questo, nel 2010, l’Unione europea ha approvato una direttiva sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici. Un documento meticoloso che propone un equilibrio per conciliare la salvaguardia degli animali con le necessità della ricerca: fissa regole stringenti per gli allevamenti e spinge a optare per test alternativi ogni volta che è possibile. Ma si tratta di un lavoro che alcuni vorrebbero affossare con un articolo della legge Comunitaria in discussione al Senato che, tra le altre cose, vieta in Italia l’allevamento di animali destinati alle sperimentazioni. Con quali conseguenze?
Innanzitutto se questa legge venisse approvata a Roma sarebbe bocciata a Bruxelles perché in contrasto con la direttiva europea. In secondo luogo le aziende farmaceutiche, come gli istituti di ricerca pubblici, dovrebbero trasferire i laboratori all’estero, con inevitabili ricadute sull’occupazione e sulla nostra economia, oppure importare gli animali da altri Paesi, causando loro sofferenza per il trasporto e senza alcuna garanzia sulle condizioni degli allevamenti stranieri. Il che significa fare due passi indietro, non uno in avanti.
Chi è contrario all’uso degli animali da laboratorio va rispettato, ma c’è davvero qualcuno che ritiene possibile testare gli effetti di un farmaco, come un’eruzione cutanea, l’insufficienza epatica o le allucinazioni, su una cellula in provetta? Oppure la proposta è quella di sperimentare le sostanze direttamente sugli uomini e sui bambini? Secondo l’Eurispes, l’86 per cento degli italiani è contrario alla sperimentazione animale eppure solo il 3 per cento si dichiara vegetariano.
La coerenza scarseggia. Oltre a smettere di mangiare carne di animali allevati per finire in padella e a non indossare scarpe di pelle, coloro che chiedono di chiudere gli allevamenti, come nel recente episodio di Green Hill vicino a Brescia, sono pronti a rinunciare anche alle medicine testate sugli animali, sino ad accettare il sacrificio della propria vita o quella dei propri figli, per una leucemia o una polmonite? Oppure il compromesso, ipocrita, sarebbe quello di utilizzarle purché non sperimentate su animali allevati in Italia?
Negli anni Novanta il mondo assisteva inerme all’ecatombe dell’Aids. Non c’era cura e milioni di persone morivano come gli appestati del XVII secolo. Ma ci fu una grande mobilitazione per sperimentare nuovi farmaci grazie ai quali oggi una persona con l’Hiv, che ha accesso alla terapia antiretrovirale, ha la stessa speranza di vita di una persona sana. Quante scimmie e primati non umani, sono stati sacrificati sull’altare della lotta all’Aids? Molti. Gli ammalati nel mondo sono ancora 35 milioni e un vaccino si potrà realizzare solo sperimentandolo su altri animali: dovremmo fermarci?
L’Espresso – 21 maggio 2012