Lavoravano per l’Azienda sanitaria ma sfruttavano tempo libero, ferie, permessi e persino malattia per svolgere altri incarichi senza essere stati autorizzati. Per la Corte dei conti sono responsabili di danno erariale.
Dovranno restituire gli stipendi percepiti quando avevano il doppio incarico: 19.229 e 8.361 euro. Due dipendenti del’Azienda sanitaria sono stati condannati dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti di Trento. Sono due sentenze che suonano come un avvertimento per tutti i dipendenti pubblici: chi avesse un doppio lavoro non autorizzato dall’ente di appartenenza rischia conseguenze pesanti. Ne sanno qualcosa i due dipendenti dell’Azienda sanitaria, protagonisti di altrettanti procedimenti per danno erariale. Il primo processo contabile riguardava una donna di Pergine di 51 anni. Questa era stata citata in giudizio dalla procura regionale della Corte dei conti che le contestava un danno patrimoniale diretto di 19.229 euro, somma che rappresenta gli stipendi versati dall’Azienda quando la donna aveva il secondo lavoro. Inoltre le si imputavano danni da disservizio e di immagine. La donna tra il 2006 e il 2009, «in assenza di preventiva e specifica autorizzazione» si legge in sentenza, aveva prestato attività professionale a scopo di lucro in favore della Casa di cura Solatrix di Rovereto, dell’Istituto Arcivescovile per Sordi di Trento, della Cooperativa sociale Saniservice di Trento e della cooperativa Villa Maria di !sera. Questo, ad avviso della procura, era avvenuto «in violazione del principio di esclusività del rapporto di lavoro». Ad aggravare la posizione della donna c’erano anche le giustificazioni, definite «espedienti elusivi», di volta in volta addotte per ottenere tempo libero dall’Azienda sanitaria. In particolare la dipendente avrebbe usufruito di periodi di congedo ordinario, permessi per malattia, permessi studio, permessi per aggiornamento professionale e permessi per adempimenti connessi al ruolo di rappresentante della sicurezza. Infine c’erano anche permessi che la donna aveva ottenuto grazie alla legge che consente di assistere familiari non autosufficienti.
La dipendente, attraverso gli avvocati Enzo e Maristella Paiar, aveva replicato di aver chiesto e ottenuto, sia pure solo telefonicamente, il permesso a svolgere attività infermieristica presso altre strutture. Inoltre si sottolineava che questo lavoro di assistenza era radicalmente diverso, e dunque non si poneva in concorrenza, con quanto fatto presso l’Azienda sanitaria dove la signora era magazziniera. I giudici alla fine hanno condannato la donna rilevando che non c’era prova che la stessa avesse ottenuto un permesso per svolgere attività esterna. Alla sua richiesta l’Azienda aveva replicato con una nota in cui si limitava a ricordare il regime di incompatibilità previsto dal regolamento interno e dunque «non conteneva – sottolineano i giudici – alcuna autorizzazione neppure implicita». La donna ora dovrà restituire all’Azienda 19.229 euro, ma è stata assolta dalla richiesta di danni da disservizio e d’immagine. Il procedimento di fronte alla Corte dei conti è comunque solo un capitolo di un contenzioso ben più ampio. Il doppio lavoro è costato alla dipendente una denuncia penale, con condanna in primo grado ad 8 mesi per truffa, e un licenziamento impugnato dalla difesa perché ritenuto illegittimo.
Parzialmente diverso – anche se non nella condanna finale della Corte dei conti – il caso di un infermiere quarantenne di Trento difeso dall’avvocato Gabriele Beccara. All’uomo venivano contestate attività svolte tra il 2007 e il 2009, in «assenza di preventiva e specifica autorizzazione», per conto della Cooperativa sociale Villa Maria di !sera. Anche lui aveva sfruttato congedo ordinario, permessi per aggiornamento e periodi di malattia. Il dipendente, avendo un contratto part time pari o inferiore al 50%, poteva svolgere legittimamente altre attività ma avrebbe dovuto comunque comunicarlo all’Azienda poiché tali incarichi per regolamento non possono essere in «conflitto di interessi». Conflitto che secondo i giudici in questo caso sussisteva visto che l’uomo svolgeva presso terzi la stessa attività di infermiere. Dunque anche per lui condanna a risarcire 8.361 euro, pari agli stipendi versati dall’Azienda quando aveva anche il secondo lavoro.
LA SENTENZA
«Vige il principio di esclusività». Avere un secondo lavoro se si è dipendenti pubblici è possibile, ma occorre rispettare il quadro normativo e i regolamenti dei singoli enti. Nelle due sentenze i giudici contabili, in riferimento a norme del 1957, del 1996 e del 2001, scrivono che esse «sanciscono, in linea generale, il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego e regolamentano i casi di incompatibilità di esso con altre attività di lavoro subordinato o autonomo, stabilendo comunque l’obbligo di preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza anche nell’ipotesi di svolgimento di incarichi retribuiti consentiti dalla normativa». «Infatti, nel rapporto d’impiego con le pubbliche amministrazioni vige il principio generale per effetto del quale l’impiegato deve dedicare all’ufficio tutta la propria capacità lavorativa, intellettuale e materiale, con la conseguenza che sussiste incompatibilità tra l’impiego pubblico e l’esercizio di altre attività professionali». Inoltre «gli obblighi sottostanti al rapporto di lavoro pubblico permangono anche nei casi in cui il pubblico dipendente si trovi temporaneamente esonerato dall’obbligo di prestare attività lavorativa per ragioni di salute ovvero» a causa di eventi legati alla tutela della salute del dipendente stesso, «la controprestazione dovuta dal lavoratore assente per malattia si converte nell’obbligo di curarsi e di non prestare altre attività anche solo assimilabili a quelle lavorative».
2 aprile 2012 – L’Adige