Legittimo il licenziamento intimato da una banca a un proprio dirigente in quanto figura apicale. A nulla sono valse le contestazioni dell’interessato, che aveva rifiutato il trasferimento ad altra sede, sostenendo la natura ritorsiva del provvedimento.
Con la sentenza del 26 marzo 2012 n. 4797, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, richiamando principi più volte affermati dalla propria giurisprudenza e confermando quanto già avevano statuito i giudici di merito, ha ribadito la legittimità di tale licenziamento, rigettando definitivamente il ricorso del dirigente, il quale chiedeva di essere reintegrato nel posto di lavoro e risarcito dei danni avuti, compreso il danno all’immagine e alla vita di relazione.
La vicenda
I giudici di merito avevano accertato che il licenziamento intimato al dirigente non era stato motivato dal rifiuto dello stesso di trasferirsi da una banca del centro Italia a un’altra del nord, bensì da esigenze di ristrutturazione della banca datrice di lavoro che aveva rilevato delle eccedenze di personale, ad ogni livello, e, per cercare di mantenere il livello occupazionale, aveva adottato il distacco di parte del personale presso l’istituto di credito settentrionale. Accertate le ragioni di ristrutturazione della banca, accertata la qualifica di dirigente apicale da parte del dipendente, i giudici, sia di primo che di secondo grado, ritenevano, conseguentemente, legittimo il licenziamento. Contro la pronuncia del giudice di appello proponeva ricorso per cassazione il dirigente bancario, basandolo su un decina di motivi i quali tutti ruotavano sulla richiesta di nullità del licenziamento, dovendo in esso ravvisarsi una ritorsione da parte del datore di lavoro, nel quadro di una strategia di mobbing iniziata con il demansionamento subito in passato. Veniva, inoltre, contestata anche la crisi economica cui la banca aveva fatto riferimento e, quindi, veniva eccepito che il recesso del datore di lavoro era privo di giusta causa.
Il verdetto
Il giudice di legittimità, nel rigettare il ricorso, ha osservato che non può essere data una diversa valutazione della motivazione del licenziamento ma che occorreva fare, così come era avvenuto nei gradi precedenti, riferimento al tenore letterale della comunicazione inviata al dipendente dove, appunto, veniva precisato che le esigenze di riorganizzazione dell’istituto comportava la riduzione dell’organigramma e la soppressione della posizione di lavoro occupata dal dirigente. Nella specie, poi, non poteva ravvisarsi neppure la violazione delle leggi 604/66, 300/1970 e 108/1990, come lamentato, perché la disciplina limitativa del potere di licenziamento non è applicabile ai dirigenti convenzionali, sia apicali, sia medi sia minori, eccezion fatta per gli pseudo-dirigenti, cioè coloro i quali hanno compiti in alcun modo riconducibili alla declaratoria del dirigente. A quest’ultima figura, inoltre, ai fini della legittimità o meno del licenziamento basta far riferimento alla nozione di “giustificatezza” del motivo che, notoriamente, non coincide con il concetto di “giusta causa” o “giustificato motivo”, ex articolo 1 della legge 604/1966, ma è molto più ampio in quanto può fondarsi sia su ragioni soggettive proprie del dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti la ristrutturazione aziendale. Tali ragioni, però, non debbono necessariamente coincidere con l’impossibilità di continuare nel rapporto o con una grave situazione aziendale, dal momento che il principio di correttezza e buona fede, che rappresenta il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con il principio garantito dall’articolo 41 della Costituzione di libertà di iniziativa economica, come già ricordato dalla Cassazione nella sentenza n. 16498/2009
ilsole24ore.com – 27 marzo 2012