Il sistema di un uomo solo al comando di Asl e ospedali non funziona. Serve un patto con i professionisti. Ma anche la “dirigenza” medica ha fatto il suo tempo. Abolire l’intramoenia? “Nessuno pensa di chiudere i negozi perché qualcuno non fa lo scontrino”.
Per il segretario nazionale dell’Anaao Assomed, Costantino Troise, i medici cercano nella libera professione intramoenia non solo risvolti economici, ma anche un’autonomia e una gratificazione professionale che le aziende oggi gli negano. E se è vero, come dimostrano i dati presentati dal generale dei Nas, che in questo ambito non mancano le truffe, tuttavia Troise sottolinea come “anche i blitz fatti a Cortina e altrove dai Nas hanno dimostrato che un numero notevole di esercizi commerciali non rilasciano lo scontrino fiscale, eppure nessuno ha chiesto di abolire il commercio o che questi esercizi commerciali venissero chiusi”. Per Troise, dunque, non si tratta di abolire la libera professione intramoenia, che è peraltro fonte di incassi pari a 450 milioni all’anno per lo Stato e pari ad oltre 170 milioni all’anno per le aziende. Quello che serve è applicare la legge, che prevede chiaramente anche controlli da parte dell’azienda per scoraggiare le irregolarità e sanzioni fino al licenziamento per chi commette irregolarità.
Un richiamo, quindi, alla responsabilità del direttore generale e dell’azienda, nei confronti dei quali il segretario nazionale del sindacato della dirigenza medica non risparmia critiche: “L’anomalia del modello aziendale è palese. Chiudere i bilanci quanto più possibile vicino al pareggio appare il mandato principale di chi non ha particolari responsabilità politiche di lunga durata nei confronti del territorio che va ad amministrare. Tagliare tutto quello che costa, compresi i diritti”. L’aziendalizzazione, per Troise, è quindi da ripensare. Insieme a una riscrittura del lavoro medico all’interno delle organizzazioni sanitarie con un ragionamento a tutto campo che non esclude, se necessaria, una modifica dello stato giuridico dei medici del Ssn.
Dottor Troise, a venti anni dall’avvio del processo di aziendalizzazione della sanità, da più parti se ne decreta il fallimento. La pensano così anche i medici?
Direi di sì. Il processo di aziendalizzazione, già in partenza non privo di ambiguità sia semantiche che sostanziali, ha suscitato in 20 anni delusioni più che risultati concreti, essendo stato inteso soprattutto come recupero della dimensione economica insita nelle prestazioni sanitarie. Le Aziende Sanitarie si comportano in genere come Aziende contabili, tendenzialmente indifferenti al loro finalismo istituzionale,scarsamente orientate verso la dimensione dell’efficienza, dell’efficacia e della appropriatezza, scontando la marginalità della componente professionale medica priva di un coinvolgimento operativo nei percorsi gestionali. Ha prevalso, cioè, l’interpretazione di chi ha pensato solo a riportare in pareggio i bilanci fino a farle identificare con il solo governo dei costi di produzione attraverso un puro meccanismo di controllo dei fattori di produzione, medici e dirigenti sanitari compresi, senza visione strategica né di prospettiva in termini di risultati di salute. Peraltro, il disastro dei conti dimostra che l’aziendalizzazione non è riuscita neanche a raggiungere l’obiettivo principale per il quale era nata. E’ mancato uno sguardo lungo, il coinvolgimento dei professionisti presenti nel mondo sanitario, la armonizzazione di molteplici legittimi interessi. La complessità del mondo sanitario non può, cioè, essere governata con i soli strumenti della cultura aziendale, anche ove questi venissero utilizzati al meglio, cosa che in verità non sempre è accaduta. Serve un patto che recluti tutte le intelligenze professionali rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Come dicevo al sottosegretario alla Salute Cardinale, non è solo una questione di nome, anche se “nomina sunt essentia rerum”. È una questione di mission e di vision, come ci hanno insegnato.
Tutto da buttare, quindi?
Non possiamo negare che l’aziendalizzazione abbia avuto il merito di introdurre strumenti contabili prima ignorati, superare il finanziamento per spesa storica, richiamare l’attenzione dei medici sul piano della responsabilizzazione sui costi connessi alle decisioni cliniche. Perché se è vero che la salute non ha un prezzo, ha però certamente dei costi che non si possono ignorare. Tuttavia, ben presto sono iniziate ad emergere le criticità, a cominciare dai criteri per la scelta del management e dal legame stretto con la politica la cui invadenza pervasiva si è presto estesa alle carriere professionali.
Il modello aziendale,così come è stato realizzato, non solo non è la soluzione giusta per la sanità italiana, ma forse oggi rappresenta uno dei maggiori problemi.
Però i medici avevano delle aspettative…
I medici si aspettavano che un cambio di assetto istituzionale favorisse una maggiore partecipazione ai processi decisionali, anche nell’ambito di scelte di tipo economico. Si aspettavano di essere valorizzati per le loro competenze e le loro capacità professionali, necessarie anche ai fini del contenimento dei costi.
I medici hanno creduto in questa sfida e l’hanno accettata, al punto da chiedere una qualifica dirigenziale che ne formalizzasse l’autonomia e la responsabilità sia sul piano professionale che nei processi di controllo della spesa. Invece di una governance più partecipata, si sono trovati a sprofondare in un assetto che ben presto ha smarrito il senso etico di azienda speciale, ove sono stati assimilati a “macchine banali”, solo uno dei tanti elementi del ciclo di produzione. Ha prevalso la logica di chi ha visto nell’aziendalismo uno strumento di mero controllo dei costi, un altare sul quale sacrificare meriti e talenti, con un’accentuazione tanto più marcata quanto più la crisi economica e il definanziamento della sanità hanno iniziato a segnare i primi colpi.
Nel frattempo non si è chiarito il problema della natura giuridica della azienda e del rapporto con le Regioni, cui spetta il potere di programmare e finanziare, e con i Comuni, che comunque conservano una autorità in ambito sanitario. Nei fatti il regionalismo in sanità si è tradotto in un neo centralismo che ha marginalizzato sia le comunità locali che la comunità professionale.
Quindi i dirigenti medici non hanno avuto spazio per esercitare la loro funzione dirigenziale…
Si è affermato il modello dell’uomo solo al comando, il direttore generale, vera e propria figura di “governatore” inviato dalla Giunta regionale, responsabile, di fatto, della strategia aziendale e di tutte le funzioni d’organizzazione, di gestione, e di verifica fino alla selezione del management intermedio professionale. Compito francamente improbo. E se ne vedono, infatti, i risultati in molte realtà. L’anomalia del modello aziendale è palese. Chiudere i bilanci quanto più possibile vicino al pareggio appare il mandato principale di chi non ha particolari responsabilità politiche di lunga durata nei confronti del territorio che va ad amministrare. Tagliare tutto quello che costa, compresi i diritti.
Senza contare, poi, che di quelle scelte non deve rispondere a nessuno se non al potere politico che l’aveva nominato e lo stesso Collegio di direzione ha avuto nella maggior parte dei casi funzioni essenzialmente notarili. Anche i diversi tentativi di cambiare i criteri di nomina dei direttori di struttura complessa che si sono susseguiti di anno in anno non sono riusciti a sradicare il mito della scelta in base al “rapporto fiduciario”, laddove si tratta con tutta evidenza di selezionare competenze professionali.
Ma i medici non hanno nessuna autocritica da farsi rispetto a quanto accaduto?
Sicuramente i medici non hanno avuto la capacità di costruire un argine efficiente e, pur rendendosi conto che le crepe del sistema si facevano sempre più evidenti, hanno impiegato molto tempo a capirne le dinamiche. Anche a causa di un estremo frazionamento della categoria, tra qualifiche gestionali e professionali, tra tipologie di lavoro a tempo indeterminato e precariato, tra modalità di rapporto di lavoro in esclusiva e non.
Forse una qualche responsabilità può essere loro riconosciuta per essersi impegnati in conflitti orizzontali senza vedere che le logiche organizzative soffocavano i valori professionali e senza misurare la progressiva irrilevanza cui li condannavano. Se la critica dell’Anaao parte dal Congresso del 2002, solo negli ultimi anni è iniziata una riflessione più profonda sulla necessità di ripensare il modello di governance in funzione non solo della logica della partita doppia ma anche della qualità del prodotto e della soddisfazione degli operatori. Ed i rapporti tra contenuto e contenitore.
Ad esempio separando il duplice ruolo di clinici e dirigenti?
Indubbiamente, nelle Aziende sanitarie i medici si sentono poco amati, controllati, vincolati alle norme che disciplinano l’organizzazione fissando i livelli di subordinazione. Nella crisi della identità professionale forte è la tentazione di chiamarsi fuori per dedicarsi alla purezza della professione lasciando che sia qualcun altro a pensare alla gestione . Ma per avere un peso occorre imparare a gestire ed accettare un ruolo perché la stessa autonomia professionale nella società moderna è minacciata dalla crescita di altre professioni che aspirano al ruolo dirigenziale. Il guaio è che siamo chiamati ad impersonare un profilo di dirigente, cui è collegata una dimensione professionale ed una di responsabilità nella gestione quotidiana e strategica delle risorse, senza forme di partecipazione ai modelli organizzativi ed operativi aziendali.
Lo stesso stato giuridico del medico ospedaliero è un ossimoro peculiare: dipendente e dirigente, sia per la natura intrinseca di interprete dei bisogni di salute dei cittadini, sia per il trasferimento di delega della proprietà in quanto gestore di risorse anche ingenti. In tutti i medici sia pure con grado e intensità differente sono presenti i due ruoli essendo la responsabilità gestionale insita in ogni atto medico per la valenza delle risorse impiegate e comportando ogni scelta clinica una decisione etica ed economica di cui il medico è responsabile.
Ma l’ossimoro disegnato dal dlgs 229/99 ha probabilmente fatto il suo tempo.
Ci troviamo sempre più stretti nel contenitore del pubblico impiego nel quale non ci riconosciamo e che tratta allo stesso modo professionisti,cui è demandata la tutela di un bene prezioso,quale la salute, e l’impiegato comunale. Per dirla con Amedeo Bianco “il disagio della professione è reale e chiede risposte”. Occorre riflettere su questa situazione senza illudersi sulla esistenza di scorciatoie, quale mi sembra la separazione di cui parla.
Uscire dalla dipendenza? E per andare dove?
In questo momento non vogliamo né uscire né entrare da nessuna parte. La riflessione è ancora acerba e sappiamo, con certezza, solo che l’attuale contenitore penalizza i medici e non è coerente con la natura professionale, la specificità e la delicatezza dell’attività che essi svolgono all’interno delle strutture sanitarie. Il medico del SSN oggi è considerato un semplice dipendente che svolge un incarico professionale piuttosto che un professionista che lavora per il Pubblico, tanto è vero che per le aziende non è altro che uno dei tanti fattori produttivi di un modello organizzativo rimasto l’ultima espressione di fordismo, almeno in Italia. Occorre una riscrittura del lavoro medico all’interno delle organizzazioni sanitarie con un ragionamento a tutto campo che non esclude,se necessaria, una modifica dello stato giuridico.
Mi faccia capire. Un professionista che lavora per il Pubblico come lo sono i medici in convenzione?
Non so ancora dirle come. Oggi possiamo dire solo ciò che non vogliamo senza avere ancora inquadrato un orizzonte. Valuteremo tutte le possibilità per ridisegnare i modelli di organizzazione e gestione all’interno dei quali recuperare un ruolo professionale,sociale e politico che risponda coerentemente a tutte le specifiche caratteristiche della professione e del suo compito primario, cioè la tutela della salute dei cittadini.
Il rapporto medico-azienda è dunque in crisi. Per questo vediamo sempre più medici dichiararsi insoddisfatti nei confronti della propria azienda sanitaria?
Tra i medici non c’è mancanza di affezione alla professione. Però c’è una forte disaffezione nei confronto del proprio posto di lavoro. Manca uno spirito di appartenenza ed una condivisione di valori, complice anche la incertezza cognitiva sui percorsi strategici,la scarsa trasparenza nella gestione delle risorse,la irrilevanza cui le categorie professionali sono tenute dalla prosopopea di una certa cultura aziendalista che pensa di potere costruire maxi aziende con minimedici.
Per invertire la rotta, a questo punto, mi sembra che sia necessario che la categoria decida finalmente cosa vuole diventare.
La categoria deve ritrovare innanzitutto l’orgoglio professionale per riaffermare i valori in cui crede, per i quali ha studiato, per i quali è stata formata ed ha prestato giuramento. E per riaffermarli in maniera unitaria. Questo è un elemento indispensabile per qualsiasi processo di trasformazione, che non può prescindere da una partecipazione convinta della maggioranza dei medici italiani. Tutti i sindacati, intanto, sono uniti nel denunciare un diffuso disagio ed una crescente insofferenza verso il modello aziendale. Tanto è vero che abbiamo inseguito per anni un provvedimento legislativo che speravamo attuasse il mitico governo clinico, che non è il governo dei clinici, ma la convergenza di valori,ruoli e responsabilità di professionisti diversi per un governo delle strutture sanitarie finalizzato ad obiettivi di salute. Il problema che abbiamo di fronte è in sostanza quello di progettare un nuovo sistema che ricostruendo i valori di appartenenza alla professione privilegi le risorse sociali nei confronti dei valori economici, superando la dicotomia tra sviluppo dei temi professionali e l’attuale modello organizzativo nel quale il professionista è spinto ad identificarsi se vuole progredire nella carriera.
L’Anaao, insieme agli altri sindacati della dirigenza, sta per lanciare una nuova iniziativa di denuncia. Può anticiparci di cosa si tratta?
Si tratta dell’avvio di una campagna mediatica con la quale denunciamo il peggioramento delle condizioni di lavoro, grazie al blocco del turn over ed all’esodo pensionistico, che determinano flessione del numero di medici a fronte di un aumento dell’attività, come dimostrano gli afflussi al Pronto soccorso. Denunciamo che si sia fatta cassa con le nostre buste paga e con le nostre pensioni. Denunciamo una minaccia alla libera professione intramoenia e agli istituti normativi ed economici contrattuali. Denunciamo l’attacco alla nostra autonomia professionale,previdenziale e contrattuale.
Un po’ la sintesi delle battaglie che abbiamo condotto fino ad oggi, anche nei confronti delle direzioni aziendali e delle Regioni, che, con i tagli lineari dei costi fissi, rischiano di affondare il diritto alla salute dei cittadini insieme con le capacità e il know how dei medici.
Intramoenia che, secondo i dati presentati in commissione parlamentare di Inchiesta sul Ssn dal generale dei Nas, Cosimo Piccinno, ha portato nel 2011 a denunciare 356 medici, 337 per attività in intramoenia e 19 in extramoenia, per un danno stimato di 4 milioni di euro…
I blitz fatti a Cortina e altrove hanno dimostrato che un numero notevole di esercizi commerciali non rilasciano lo scontrino fiscale, ma nessuno ha chiesto di abolire il commercio o che questi esercizi venissero chiusi.
La attività libero professionale intramoenia,anche nella forma allargata, è inserita in una matrice organizzativa fatta di leggi,contratti e regolamenti che rende difficili,ma certo non impossibili, comportamenti opportunistici o truffaldini. Quello che serve sono controlli per scoraggiare le irregolarità e rispetto delle regole che prevedono sanzioni fino al licenziamento. Sia quindi applicata la legge e si metta in atto un sistema che chiami in causa tutta la filiera di responsabilità.
Io non nego che ci siano comportamenti irregolari nella attività libero professionale, ma ognuno venga richiamato alle sue responsabilità, comprese quelle di chi deve vigilare.
Crede che se i medici fossero più pagati e gratificati dal loro lavoro “istituzionale” rinuncerebbero all’intramoenia?
Al di là di quanto crede qualcuno, tra cui il mio amico Cavicchi, la attività libero professionale non può ridursi solo ad un nodo contrattuale, essendo anche un problema di gratificazione professionale per chi all’interno delle aziende in cui lavora non riesce ad esprimere e a valorizzare le proprie capacità perché fortemente limitato nella sua autonomia e responsabilità.
I medici cercano e trovano in questa attività non solo risvolti economici ma anche autonomia e gratificazione professionale che le aziende oggi mettono in discussione. Questi due aspetti rappresentano motivazioni forti per la richiesta di esercitare quello che la legge definisce come “diritto”. È possibile che se risposte a tali motivazioni fossero trovate nell’ambito del lavoro istituzionale, parte dei medici potrebbe rinunciare all’esercizio libero professionale. Ma occorrerebbe una rivoluzione in sanità di cui oggi non c’è nessuna avvisaglia. Inoltre, esistono ambiti ultra specialisti in cui credo che questo non sarebbe neanche immaginabile, anche perché nessuna azienda sarebbe in grado di sostenerne i costi. Con il risultato di spingere le competenze e le capacità maggiori fuori dal sistema pubblico in un settore privato pronto ad accoglierle a braccia aperte per utilizzarle in un sistema di mercato.
In definitiva, credo che negare ai medici questo diritto significa allocare consistenti risorse al settore privato che già oggi registra una spesa dei cittadini di 30 mld. Senza vantaggi per l’azienda, sia in termini competitivi che di ricavi. Non dimentichiamo, infatti, che il lavoro aggiuntivo, e sottolineo aggiuntivo al debito orario contrattuale, dei medici permette di fare entrare ogni anno nelle casse dello Stato 450 mln di tasse ed in quelle delle aziende oltre 170 milioni di euro ogni anno cash. Meglio farne a meno?
Forse dovremmo evitare di caricare questa materia di significati impropri non privi di venature ideologiche.
A proposito di Patti, avete più volte chiesto di essere coinvolti nella definizione del nuovo Patto della Salute. Avete ricevuto segnali a proposito?
Il ministro della Salute ha riconosciuto che senza la nostra partecipazione e motivazione non si va da nessuna parte, che siamo interlocutori indispensabili del processo di cambiamento della sanità. Tuttavia non abbiamo ricevuto alcuna convocazione. Ma continueremo a chiederla e andremo avanti fino alla noia: i medici non sono un problema, sono una parte della soluzione. Occorre quindi definire un nuovo patto con i professionisti e nessun Patto per la Salute che non voglia ridursi al puro regolamento di conti tra livelli istituzionali può avere possibilità di successo senza e contro i Medici ed i dirigenti sanitari.
Cento giorni di “ministero tecnico”. Qual è il suo bilancio?
Impossibile non riconoscere al ministro Renato Balduzzi una sensibilità, un’attenzione e una competenza rispetto alle problematiche del Servizio Sanitario. C’è stato un necessario periodo di ricognizione, nel corso del quale credo che il ministro abbia toccato con mano le criticità che aveva già visto in qualità di presidente dell’Agenas. Ora speriamo sia il tempo di passare agli interventi condivisi.
quotidianosanita.it – 19 marzo 2012