Il rapporto dei Nas sull’attività libero professionale dimostra ancora una volta che il medico non dovrebbe arricchirsi in un sistema pubblico a spese del malato.
Di contro, però, dovrebbe essere ben pagato. Perché non si può essere metà dipendente pubblico e metà libero professionista
Non è mai elegante tappare la bocca a chi non la pensa come te dicendogli “l’avevo detto” ma dopo il rapporto dei Nas sulla “libera professione intramoenia”, mi si consentiranno alcuni repechage.
Solo una settimana fa su questo giornale, a proposito di intra moenia avevo scritto:”…i comportamenti speculativi si sono moltiplicati… si è fatto di tutto meno che moralizzare…la libera professione è diventata la prima causa di ingiustizie e la prima fonte di privatizzazione della spesa e un forte elemento di destabilizzazione della natura equa e solidale del sistema”. Solo tre giorni fa, sempre su questo giornale, riflettevo sulla “questione medica” e sui “limiti” di questa categoria sollecitandola a dotarsi di una propria progettualità. Ora leggo i primi commenti al rapporto dei Nas e rimango perplesso. Il Pd, per bocca del mio amico Marino, in genere molto attento a denunciare disfunzioni, sopraffazioni, abusi, insiste nel confermare l’intramoenia battendo la strada della “regolamentazione” nonostante forze politiche, moderate per definizione, come l’Udc, si siano pronunciate per un “ripensamento”. Ho definito l’intramoenia “un salto mortale non riuscito” e lo ribadisco, ma proprio per questo voglio ricordare che se i salti sono sbagliati o impossibili anche mettendo una rete di salvaguardia, non si risolve il problema. Quindi meglio non farli.
Ma allora cosa fare? Per rispondere sono costretto ad un altro piccolo repechage, questa volta un libro, sulla questione medica, il cui titolo la dice lunga “autonomia e responsabilità” (Dedalo 2007). In questo libro si dimostra che ogni qual volta nel sistema sanitario c’è un “potenziale di abuso”, molti sono i medici che finiscono per abusare. E’ successo con le notule dei medici di famiglia, quando i medici ospedalieri erano pagati in proporzione ai posti letto, è successo con gli incentivi di produttività, con i DRG, il plus-orario e sta succedendo con l’intramoenia. Ciò non avviene, secondo me, perché la categoria dei medici è disonesta, tutt’altro, ma perché non è mai stato sciolto un vecchio nodo giuridico-contrattuale. Prima dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale, quindi degli anni 70, la natura contrattuale del lavoro medico era privatistica. Questa natura contrattuale viene mantenuta in parte anche quando i medici diventano dipendenti pubblici, dando luogo al famoso tempo pieno/tempo definito di cui l’intramoenia è semplicemente una reinterpretazione. Il “potenziale di abuso” primario è in questa promiscuità perché essa nel momento di essere agita da luogo a quei fenomeni di cui oggi ci parlano i nas e purtroppo non solo a quelli. Ma in cosa consiste la promiscuità tra pubblica dipendenza e libera professione? Consiste nel far coesistere due filosofie in contraddizione: una che considera la professione medica come redditizia e una che la considera come lucrativa.
Questa contraddizione a partire dal primo contratto pubblico dei medici degli anni ‘70 si esaspera nel tempo perché la professione medica diventa per ragioni di risparmio sempre meno redditizia e per compensazione sempre più lucrativa. Lo Stato in pratica per pagare poco i medici tollera che i medici guadagnino in qualche modo sui malati. Secondo una certa etica le professioni si distinguono da altri tipi di impieghi proprio perché sono redditizie e non lucrative. Un medico non dovrebbe arricchirsi in un sistema pubblico a spese del malato di contro però dovrebbe essere ben pagato. Io sostengo che se si pagassero meglio i medici si ridurrebbe il potenziale di abuso. Sostengo anche che se ciò fosse risparmieremmo un sacco di soldi facendo l’interesse generale dei malati e della sanità. Come? I medici dovrebbero accettare il fatto che “redditizio” sia in funzione di un sistema di valori etico-economici, cioè di un bene comune. L’operazione che si dovrebbe fare è: ricondurre i valori del “buon fare” a una funzione di reddito usando la redditività del lavoro come misura di economicità. In pratica si tratta di mettere insieme in modo intelligente l’interesse peculiare con l’ interessi generale. Per fare questo c’è bisogno di un cambiamento, anche di natura contrattuale (penso che sulle forme contrattuali in essere serve una riflessione approfondita). La redditività del lavoro medico oggi non può essere definita continuando a considerare il medico come un ircocervo: metà dipendente pubblico, cioè burocrate, e metà libero professionista. Penso che le due cose si possono ricomporre in modo trasparente nella figura di “auto-re”, (figura che risolverebbe anche il problema delle grandi differenze tra convenzionati e dipendenti), cioè dentro uno scambio di segno nuovo tra auto-nomia e re-sponsabilità, da controllare attraverso la misurazione degli esiti prodotti.
Quindi l’idea di fondo è definire il reddito dei medici funzione della loro operatività, nulla di più. Ora mentre sto chiudendo il mio articolo non posso fare a meno di pensare a coloro che lo leggeranno e ai “crampi mentali” che mio malgrado causerò, cioè ai problemi del problem solver prima ancora che a quelli del problem solving. Che dire? Se non risolviamo i primi non si possono risolvere i secondi. Mettiamo insieme le forze, costruiamo una commissione di studio, facciamo delle audizioni, definiamo un percorso, promuoviamo un concorso di idee…tutto quello che vi pare…però sia chiara una cosa: la questione medica non è irrisolvibile essa è resa tale perché coloro che se ne dovrebbero occupare sono da oltre trent’anni a corto di soluzioni. Ognuno quindi si prenda le proprie responsabilità.
Ivan Cavicchi – quotidianosanita.it – 15 marzo 2012