Fiumi a secco, vertice con il Friuli: flusso ridotto per centrali e acquedotti. Prossimo passo: serbatoi in pianura e stop alle fontane
VENEZIA — Il Piave non era tanto secco da un secolo: non scorre, arranca. Gli alberi sono come cerini e basta un niente per mandarli in fumo. E mentre nei cortili si va via di innaffiatoio a garganella per tener vivi i tulipani, la Regione prepara un piano per affrontare l’emergenza siccità, classificata come «grave» dagli uffici dell’Ambiente. «Abbiamo chiesto a Palazzo Balbi di attivare tutti gli strumenti a sua disposizione per fronteggiare la perdurante assenza di precipitazioni, inferiori del 70% rispetto alle medie stagionali – spiega Giuseppe Romano, presidente dell’Unione dei consorzi di bonifica – primo fra tutti il Piano stralcio per la tutela della risorsa idrica Piave». Ma sotto la lente non c’è solo il fiume sacro alla Patria. Anche l’Adige è un osservato speciale, specie nel tratto più vicino alla foce, perché se i livelli dovessero abbassarsi ulteriormente, a causa del «cuneo salino» si dovrebbero arrestare tutti gli acquedotti che vi attingono. L’esigua portata del fiume in secca (ma un discorso analogo potrebbe valere per tutti i corsi d’acqua che si tuffano nell’Adriatico) non sarebbe infatti più in grado di contrastare la risalita dell’acqua salata del mare, che finirebbe così negli impianti della zona di Chioggia e Rosolina che però non sono in grado di de-salinizzarla. In quel caso, allora, si dovrebbe spegnere tutto e far entrare in azione le autobotti.
Il piano allo studio di Palazzo Balbi prevede vari interventi, come spiega Roberto Casarin, segretario generale dell’Autorità di Bacino dei fiumi dell’Alto Adriatico, che possono essere messi in campo in momenti differenti a seconda dell’evoluzione dell’emergenza: «Nell’immediato la preoccupazione è quella di aumentare la quantità d’acqua conservata nei serbatoi montani, con una contestuale riduzione di quella utilizzata nelle centrali idroelettriche. Quindi si diminuirà il rilascio negli acquedotti a servizio dei centri abitati e quello relativo ai consorzi irrigui attivi in agricoltura, che assorbono la maggior parte dell’acqua immessa nel sistema». Nel lungo termine, invece, «si dovrà pensare a come iniziare ad immagazzinare l’acqua anche in pianura, intercettandola in casse di raccolta installate nel sottosuolo prima che vada al mare – continua Casarin -. In questo senso, ad esempio, si potrebbero utilizzare le cave dismesse sul territorio».
Se però la situazione dovesse precipitare, allora si dovrebbe dare il via alle misure più stringenti, da adottare con apposite ordinanze dei sindaci sotto la regia della Regione, come accadde durante la Grande Siccità del 2003: divieto di annaffiare i giardini durante il giorno, chiusura forzata delle fontane pubbliche e di quelle a getto continuo ancora attive in molte case del Veneto, soprattutto in campagna, divieto di lavare l’auto in cortile. Il piano potrebbe essere pronto entro una quindicina di giorni ed ovviamente la speranza è che il cielo risolva il problema prima che lo si debba utilizzare. «Con il collega del Friuli Luca Ciriani abbiamo incontrato i gestori dei bacini idrici e dei consorzi di bonifica – spiega l’assessore all’Ambiente Maurizio Conte – dobbiamo coordinarci mettendo in campo azioni comuni che garantiscano un flusso vitale costante ai nostri corsi d’acqua, evitando disservizi alla popolazione e danni all’agricoltura». Gli fa eco Ciriani: «C’è grande preoccupazione, dobbiamo pensare con urgenza a misure di risparmio. Con un piccolo paradosso: già da mesi stiamo lavorando fianco a fianco per la messa in sicurezza del territorio sul piano del dissesto idrogeologico. Insomma, vuoi perché l’acqua è troppa, come è accaduto con l’alluvione, vuoi perché l’acqua è troppo poca, come oggi, Veneto e Friuli sono chiamati a darsi una mano».
Corriere del Veneto – 14 marzo 2012