L’Italia è un regime di dispotismo amministrativo. La discrezionalità della Pubblica amministrazione è diventata pura arbitrarietà attraverso un arcipelago di norme, regolamenti, misure, sanzioni che ricordano più le pratiche punitive e intimidatorie dell’autoritarismo fascista che la giustizia di uno Stato di diritto e le libertà e i diritti soggettivi di una democrazia liberale.
Il governo tecnico farebbe bene a rifletterci. Ma temo che non ne abbia la sensibilità culturale; né alcuni dei suoi ministri l’interesse. Il Parlamento «non sa vedere» oltre le proprie mura ed è complice interessato degli eccessi della pubblica amministrazione. La Corte costituzionale ha peggiorato la situazione, rivelando di non essere un organo di garanzia, bensì il braccio giurisdizionale armato del dispotismo amministrativo. L’articolo 25 della Costituzione recita: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». Ma una sentenza della Consulta costituzionalizza tali garanzie — irretroattività, tassatività degli illeciti, eccetera — solo per il diritto penale. Compaiono misure amministrative strampalate, che paiono più frutto della fantasia malata di qualche stralunato dottor stranamore acquattato nelle catacombe della burocrazia che del senso comune. Risalire alle fonti della loro irragionevole prescrittività è impossibile e il cittadino, magari incolpato erroneamente, finisce col vagare nei corridoi di una sorta di tribunale kafkiano, in seduta permanente e segreta, senza venirne a capo. La multa per mancato, o ritardato, pagamento di una sanzione amministrativa, magari mai pervenuta, diventa, ad libitum, «enne volte» la sanzione pecuniaria primitiva, sommandosi a essa. L’esecutorietà della sanzione, da parte della stessa amministrazione, esclude il giudice terzo e cancella il principio della buona fede, presente in diritto penale, moltiplicando, per il cittadino, danni e disagi collaterali. L’infrazione stradale commessa da un suv è sanzionata non solo con la multa prevista dal codice della strada, ma anche accompagnata, senza ragione logica, dalla automatica segnalazione all’Agenzia delle entrate dello status fiscale dell’automobilista. La retrodatazione nell’applicazione di nuove norme; l’inversione dell’onere della prova, la negazione del «giusto processo» in materia fiscale — teorizzata persino dalla Corte di Giustizia europea, interprete della sovranità tributaria degli Stati — non sono un abominio giuridico, ma prassi cui, da noi, distorsioni e carenze del diritto amministrativo conferiscono piena legittimità. Gli esempi sono infiniti. Ha spiegato Norberto Bobbio che la «tirannia è una forma degenerata e corrotta di governo. Illegittima, perché viola i due principi su cui si regge il governo delle leggi, il principio del potere il cui titolo è conforme alla legge fondamentale e quello del potere il cui esercizio è conforme alle leggi ordinarie; temporanea, perché compare soltanto in momenti di grandi crisi storiche ed è destinata a scomparire quando la crisi è risolta e a soccombere per gli effetti dei suoi stessi eccessi che rendono intollerabile la sua signoria». Ricorda ancora Bobbio che già Aristotele aveva spiegato che mentre i sudditi dei tiranni sono scontenti perché sono uomini liberi, tanto che i tiranni sono indotti a difendersi contro i loro stessi cittadini, i sudditi del despota sono contenti perché appartengono a popoli naturalmente servili. Un antico cronista della Moscovia, durante il regno di Basilio III, aveva scritto: «Non si sa se sia la rozzezza del popolo a richiedere un sovrano così tirannico o se la tirannia del principe abbia reso il popolo così rozzo e crudele». Chi è vissuto nei Paesi di socialismo reale ne aveva visto all’opera la versione nel «meccanismo delle reazioni previste» — l’aspettativa, da parte del potere, che il popolo ubbidisse anche senza ricorso alla coercizione — ma ha constatato che quei popoli erano ben vivi. Forse è lecito chiedersi se gli italiani lo siano.
Piero Ostellino – Corriere della Sera – 13 febbraio 2012