Otto anni di sentenze, perizie, licenziamenti e reintegri. E non è ancora finita. Così funziona la giustizia del lavoro alle prese con la norma che divide le parti sociali
Sono passati più di otto anni da quando in una filiale di provincia di una famosa assicurazione italiana iniziarono ad apparire segni di vandalismo: porte danneggiate, computer rotti e sedie divelte. I responsabili dell’agenzia si rivolgono ai carabinieri che autorizzano l’installazione di telecamere nascoste. Gli atti vandalici si ripetono e le telecamere inquadrano il colpevole: è una dipendente dell’assicurazione (la chiameremo Carla, con un nome di fantasia) che alla sera, quando tutti gli altri erano andati a casa, dava il via ai danneggiamenti.
La compagnia assicurativa licenzia la dipendente per giusta causa. La linea difensiva di Carla si basa su un raptus passeggero a causa del quale la donna sarebbe stata incapace di intendere e di volere. In primo grado la signora perde su tutta la linea: nel merito, il ricorso d’urgenza e il reclamo. Si ricorre in appello. Dopo quattro anni, il giudice d’appello decide di nominare un perito per accertare che il raptus passeggero fosse compatibile con i danneggiamenti effettuati da Carla. Il perito, dopo una faticosa ricostruzione (in fondo si cercava di ricostruire uno scenario vecchio di anni) decide che in effetti quel raptus Carla poteva averlo avuto davvero in un momento in cui era incapace di intendere e di volere. Tanto basta al giudice per ordinare il reintegro della dipendente condannando l’assicurazione al pagamento dei quattro anni di stipendio arretrato pari al periodo durante il quale Carla risultava licenziata.
A questo punto è l’azienda a ricorrere alla Cassazione dove attualmente è ferma la causa in attesa di giudizio. Così, dopo otto anni, Carla non è ancora sicura del suo posto di lavoro e l’azienda sa che, nel caso in cui la Cassazione dovesse accogliere il licenziamento per giusta causa, difficilmente sarà possibile recuperare i soldi pagati per gli stipendi arretrati.
Ma la vicenda non finisce qui. Si arricchisce di ulteriori sviluppi giudiziari. Insieme alla causa civile per il licenziamento, infatti, un caso di atti vandalici e danneggiamento richiede anche una causa penale. E anche in questo caso restano identiche le linee di accusa e difesa delle parti. Nel processo penale però il giudice di primo grado decide che non serve neanche chiedere una perizia psicologica e condanna Carla a un mese.
Attualmente la causa penale è in appello: in questo caso il giudice ha accordato l’intervento di un perito che ha già escluso la possibilità di un’infermità mentale anche temporanea. Insomma dopo otto anni la stessa dipendente risulta innocente e degna del reintegro per la giustizia civile e colpevole quasi alla fine di due gradi per quella penale. Forse, indipendentemente, dal torto o dalla ragione, qualcosa che non funziona in questo meccanismo esiste. «Indubbiamente – concorda Aldo Bottini, avvocato giuslavorista, socio dello studio Toffoletto, De Luca, Tamajo – è evidente che nella valutazione di casi limite come questi bisogna ponderare le inaccettabili lungaggini della macchina della giustizia italiana. Però esiste un’altra osservazione da avanzare in merito all’applicazione dell’articolo 18: in Italia, a differenza che in tanti altri Paesi, l’unica possibilità concessa al giudice, anche nel caso in cui constatasse solo in parte le ragioni del lavoratore, è quella del reintegro. Insomma in Italia o si licenzia o si riassume. E invece, magari, permettendo al giudice la possibilità di modulare il suo intervento si raggiungerebbero accordi più rapidi e più giusti per entrambe le parti».
Un’applicazione dell’articolo 18 con la logica della mediazione. Mantenendo inalterate le tutele e il rispetto dei diritti. Chissà se a Carla sarebbe piaciuto.
Corriere.it – 4 febbraio 2012