Allo sviluppo solo le briciole di oltre 220 miliardi. Finanza. Bond e swap appesantiscono i mutui contratti Cattive abitudini. A bilancio crediti accertati ma non riscossi
I governatori siedono su una montagna di soldi. Una montagna friabile che si sbriciola sotto il peso della spesa sanitaria, dell’indebitamento e dei costi della politica. Per queste ragioni, quella montagna di soldi – oltre 220 miliardi nel 2012 — poco o nulla può per lo sviluppo socio-economico. Alle politiche industriali, al commercio e al turismo, solo per citare tre voci vitali della bilancia economica del Paese, non restano che briciole improduttive e, nella maggior parte dei casi, distribuite a pioggia, senza alcuna strategia di ampio respiro. Eppure quella cifra-220 miliardi – è enorme. Per dare alcuni parametri di riferimento, equivale a una somma compresa tra il 7% e il 10% del Pil italiano. 0, se preferite, è quanto sarebbe stato necessario un anno fa – secondo gli analisti di Credit Suisse – per ricapitalizzare 66 delle 89 principali banche europee ed evitare loro il fallimento. 0, ancora, è la cifra minima, per molti esperti finanziari, necessaria per salvare la Grecia dalla bancarotta. Soldi spesso virtuali. Se si dovesse tirare un filo rosso che accomuni tutti i bilanci delle Regioni e delle due Province autonome, sarebbe più che altro un cordone sanitario. E la sanità, infatti, che brucia la maggior parte delle spese. Le quote talvolta superano l’8o% e difficilmente scendono sotto il 50%. La sanità la fa da padrona – con il rischio di affari, non sempre trasparenti, e sprechi – anche in Regioni come la Lombardia e il Veneto che fanno dei propri centri il fiore all’occhiello dei poli di ricerca e cura in Italia e all’estero. La spesa sanitaria la fa da padrona anche in quelle Regioni del Centro-Sud commissariate da uno Stato stanco di assistere a una elargizione milionaria clientelare e poco efficiente dove, nonostante tutto, ridurre i costi appare impresa ardua. Una montagna di soldi che a volte diventa una montagna di carta. Virtuale. E il caso di due Regioni autonome a statuto speciale, come la Sicilia e la Sardegna. Nella prima si può parlare di un bilancio piegato alle logiche partitiche più che alla politica. La Corte dei conti ha più volte bacchettato gli amministratori, ma l’ultima volta, pochi mesi fa, lo ha fatto segnalando le anomalie di una contabilità che viene sottostimata e corretta in corsa. Nella seconda lo Stato “sleale” e inadempiente, non ha ancora dato seguito al nuovo sistema di compartecipazione delle entrate che, nel triennio 2010/2012, equivale ad almeno tre miliardi. Una montagna di soldi che a volte diventa una montagna di cambiali. L’indebitamento è uno degli aspetti deleteri dei bilanci regionali. Numeri che in qualunque azienda privata obbligherebbero i sindaci a portare i libri in Tribunale. Indebitamenti ai quali talvolta si è giunti a causa di un capovolgimento della logica – risorse impiegate nelle spese correnti anziché negli investimenti – e con rischiose operazioni finanziarie: bond e swap che hanno appesantito, anziché alleggerire, i mutui contratti. La Campania ha un debito di 15 miliardi, il Lazio di circa u, il Piemonte corre verso i 7, la Sicilia oltre i 5. Una montagna di soldi che talvolta diventa una banca d’affari. Lecita, per carità, al netto delle indagini della magistratura penale e contabile. In Lombardia il potere politico ha delegato a finanziarie e società controllate o partecipate ampie deleghe economiche e la stessa cosa accade in Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Puglia (dove le poltrone sono occupate solo dai fedelissimi dei governatori Augusto Rollandin, Renzo Tondo e Nichi Vendola),Toscana o in Liguria, Regioni queste ultime dove le coop vengono spesso premiate dai Governi regionali. La Regione Molise è diventata legittimamente socia, direttamente e indirettamente, di due società anonime lussemburghesi. Una frontiera che – finora – non era stata varcata da nessuno. Il paradosso, poi, è che quasi sempre le Regioni tirano indietro il braccio quando si tratta di aprire al mercato e alla concorrenza o si accontentano di briciole di sviluppo. Il Piemonte ha assistito impassibile alla mancata liberalizzazione della tratta ferroviaria Torino-Milano mentre la Basilicata,
che nell’immaginario collettivo è un unico pozzo di petrolio a cielo aperto, in 10 anni ha incassato dalle royalty appena 557,5 milioni mentre alle compagnie petrolifere non sarebbero entrati meno di otto miliardi. LaToscana non ha ancora deciso per l’apertura di un centro Ikea e per questo è stata bacchetta anche dal presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Una montagna di soldi che continua a essere una manna per la politica nonostante i tentativi di tagliare i costi che invece colpiscono sempre di più il personale. In Emilia-Romagna – che pure è stata tra le prime a intervenire su vitalizi e indennità- ai consiglieri toccano rimborsi per le trasferte talmente elevati che converrebbe affittare a vita i taxi. In Calabria – patria della casta partitica-la politica costa più del personale.E anche quando si potrebbe incidere sulle doppie o triple sedi, i campanili bloccano ogni possibilità di riforma. Se la Calabria, infatti, divide Giunta, Consiglio e assessorati tra Reggio e Catanzaro, l’Abruzzo fa la stessa cosa: personale e amministratori devono fare ogni giorno la spola tra Pescara e L’Aquila perché qui, come in Calabria, nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare il problema per paura di perdere anche un solo voto.
Il Sole 24 Ore – 3 febbraio 2012