Venti Stati nello Stato. Senza controlli, senza un Senato federale che ne armonizzi la legislazione concorrente, con regole di calibro costituzionale scritte in fretta e furia nell’ultimo scorcio della XIII legislatura da una coalizione di centro-sinistra che, riformando il Titolo V della Costituzione, voleva allo stesso tempo stoppare la Lega Nord e affermare un nobile principio: l’unità nella diversità.
Il costituzionalista napoletano Massimo Villone, allora senatore dei Ds, racconta: «Fu impossibile apportare delle correzioni. La legge arrivò blindata da Montecitorio. Eravamo agli sgoccioli della legislatura, non c’era tempo». Con la riforma del Titolo V del 2001 furono devolute alle Regioni a statuto ordinario una serie di competenze, tra le quali quella decisiva sul coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dieci anni fasi pensava che il contrappeso al rafforzamento dei poteri regionali sarebbe arrivato dal controllo democratico esercitato dalle opposizioni e dai cittadini. «Una visione ottimistica influenzata del clima politico di quegli anni», aggiunge Villone. L’inchiesta condotta dal Sole 24 Ore nelle venti Regioni italiane indica che uno dei mali che mina il regionalismo è proprio il consociativismo. Possono piacere o non piacere, ma le uniche vere forze d’opposizione incontrate nel nostro viaggio sono il Movimento 5 Stelle in Emilia-Romagna e i Radicali nel Lazio. Ai poteri schiaccianti assegnati all’esecutivo fa da contraltare un impoverimento del ruolo assembleare. In una fase storica in cui i partiti vivono una profonda crisi di legittimità, la scelta più conveniente è quella di simulare una qualsiasi forma di opposizione per poi scendere a patti con il governatore di turno. Le due legislazioni post riforma del Titolo V in Campania e Lazio (2000-2010) sono l’esempio di una gestione che ha scaricato sui cittadini i costi del patto scellerato tra maggioranze e opposizioni. Quasi 18 miliardi di debito accumulato nel Lazio negli anni della gestione Storace e Marrazzo. Per tre anni, dal 2003 al 2005, le Asl laziali non si sono preoccupate di compilare i bilanci. Segnavano le spese in un brogliaccio e le comunicavano verbalmente al ragioniere capo della Regione. Nel 2007 il ministero dell’Economia, allora retto da Tommaso Padoa Schioppa, obbligò il Lazio a un piano di rientro. Ma le casse erano vuote. Non bastò neppure la sottoscrizione di un mutuo trentennale. Il ministero, allora, tirò fuori di tasca propria i 2,5 miliardi che
mancavano all’appello per far quadrare i conti: scandali ai quali i cittadini sembrano assuefatti e che non prevedono né sanzioni penali, né amministrative. Dice Stelio Mangiameli, direttore dell’Issirfa, l’istituto del Cnr che studia i sistemi regionali, federali e le autonomie: «Sia lo Stato centrale sia le Regioni hanno attenuato i controlli a tutti i livelli. Cancellati i Core-co, i vecchi Comitati regionali di controllo, tutti i poteri di controllo sono stati trasferiti alla Corte dei conti, regionalizzata in virtù del nuovo assetto. Il governo centrale e la Corte dei conti avrebbero dovuto vigilare, già a partire dal ’98, sull’attivazione da parte delle stesse Regioni di stringenti controlli interni. Per quanto ci risulti nulla di tutto ciò è avvenuto». Il risultato non è edificante: almeno quattro Regioni, Calabria, Sicilia, Lazio e Campania, sono di fatto in dissesto e sarebbero da commissariare per gravi violazioni degli statuti e della Costituzione. La Regione Siciliana per il terzo anno consecutivo si trova in esercizio provvisorio di bilancio e rischia il commissariamento per un buco di bilancio da oltre 2 miliardi cui la giunta Lombardo non sa come porre rimedio. La Campania nel 2009 ha violato il patto di stabilità e l’ultimo comma dell’articolo 119 della Costituzione secondo cui le Regioni possono contrarre debiti solo per finanziare spese di investimento. In realtà, non solo la Campania, ma anche la Sicilia hanno continuato a indebitarsi per finanziare spesa corrente. Nel corso degli anni, poi, è cresciuto il malcostume dei residui attivi, crediti accertati ma non riscossi e spesso inesigibili che mascherano situazioni di sofferenza. Solo la Campania ne ha iscritti a bilancio per 24 miliardi. Casse a secco, montagne di debiti e crisi economica montante: questa è la condizione con la quale molte Regioni del Sud affronteranno i prossimi mesi. Quando lo Stato ha provato a fare la voce grossa, intimando alla Campania con la Finanziaria 2006 di tagliare del 10% le indennità dei consiglieri regionali, è intervenuta una sentenza della Consulta, la 157 del 2007, che recita: «La legge statale può prescrivere criteri e obiettivi (ad esempio, il contenimento della spesa pubblica) non imporre alle Regioni minutamente gli strumenti concreti per raggiungere questi obiettivi». Se le Regioni contraggo- no debiti vertiginosi, nessuno interviene. All’opposto, quando una Regione solleva conflitto di costituzionalità, lo vince. Mangiameli, che è uno studioso del federalismo tedesco, prova a individuare le cause di questa schizofrenia: «I tedeschi inorridiscono quando scoprono che in Italia si legifera con i decreti legge o i decreti mille proroghe. Espedienti che sono il contrario della certezza del diritto». Per non parlare della proliferazione delle società in house, le Spa controllate al 100, dalla Regione: casseforti di denaro pubblico nella mani di amministratori – spesso politici trombati – di stretta fiducia dei governatori. Che gestiscono risorse della collettività come se quei denari fossero cosa loro.
Il Sole 24 Ore – 3 febbraio 2012