Doveva essere la grande rivoluzione per disboscare la giungla delle partecipazioni pubbliche di Comuni, Regioni, Province ed enti locali in genere (Università e aree portuali). Oltre 11mila, secondo un rapporto dell’Istat pubblicato proprio ieri, con un numero di dipendenti che sfiora il milione di unità.
Invece, dal testo definitivo della Legge di Stabilità emerge una riforma solo parziale.
Un primo passo che servirà a ridurre il numero delle società: ne dovrebbero scomparire, entro l’anno prossimo, oltre tremila, se si riuscisse a mettere insieme le 1.500 che l’anno scorso non hanno presentato un bilancio (e quindi non sono attive) e le circa 2mila che hanno un numero di dipendenti inferiori a quello degli amministratori. E’ stata, invece, cancellata la disposizione che prevedeva la chiusura “per legge” delle società partecipate con un fatturato inferiore ai 100mila euro.
La legge di Stabilità, appena licenziata dal Parlamento, è molto categorica anche sui tempi con cui dovranno essere ridotte le società “inutili”: entro la fine di marzo, i vari enti locali proprietari delle quote dovranno predisporre un piano di cancellazioni o di aggregazioni alla Corte dei Conti, che dovrà poi essere attuato entro il 31 dicembre 2015. Il testo parla di un piano di razionalizzazione sulle microsocietà, i doppioni e senza dipendenti nonché di un piano di aggregazioni tra società che erogano servizi (luce, gas, rifiuti, trasporti). Il legislatore ha previsto incentivi per chi venderà le proprie quote a società più grandi che potranno così aumentare le proprie economi di scala: il ricavato potrà essere investito in opere pubbliche anche al di fuori del Patto di stabilità. Lo stesso potrà avvenire nel caso di capitali ricavati dalla quotazione in Borsa delle società.
Sono state, infine, cancellate le sanzioni di legge nei confronti degli amministratori che non provvederanno alla stesura dei piani di razionalizzazione. L’obbligo di legge basterà per dare il via al taglio delle partecipate?
Ma senza sanzioni il disboscamento sarà più difficile
Arrivederci al marzo del 2016. Per quella data, secondo quanto previsto dalla legge di Stabilità, dovrà essere pubblicato il resoconto delle partecipate pubbliche che verranno “eliminate” nel corso del prossimo anno. Una sorta di lista di buoni e cattivi: una divisione netta tra enti locali che avranno colto quella che è già stata definita «una occasione da non lasciarsi sfuggire» e quelli che si saranno dimostrati — ancora una volta — refrattari alle politiche antispreco nella pubblica amministrazione.
Ma la “lista della vergogna”, al momento, appare come l’unico deterrente per impedire che Comuni, Regioni ed enti pubblici di varia natura si sottraggano all’obbligo di legge per ridurre il numero delle partecipate. Soprattutto, dopo che è caduta la norma che prevedeva una penalizzazione pecuniaria agli amministratori inadempienti (la decurtazione del 10 per cento della retribuzione).
Un po’ poco per raggiungere l’obiettivo che si era dato il governo Renzi quando ha iniziato la battaglia per la razionalizzazione delle società che — storicamente — sono nate per portare i servizi essenziali nelle case dei cittadini, ma sono poi diventate tutt’altro: un modo clientelare per distribuire posti di lavoro o una scappatoia finanziaria per non dover registrare perdite in bilancio.
L’assenza di una sanzione efficace è sicuramente il limite del provvedimento preso dal Parlamento: soprattutto perché l’obiettivo di partenza che si era dato l’esecutivo Renzi era molto alto: portare le partecipate a non più di mille, delle oltre 11mila censite dall’Istat, secondo un calcolo fatto sui dati disponibili nel 2012. Una cifra che cambia ogni volta a seconda di chi compila lo studio: l’ex Mister “spending review” Carlo Cottarelli aveva parlato di circa 8mila società, in perdita per 1,2 miliardi complessivi, ma anche di risparmi possibili per 2 miliardi. Così come rimane grande l’incognita di quanto accadrà nelle regioni meridionali. Chi vorrà assumer- si l’onere di rilevare società in perdita, con un alta percentuale di morosi e bassa produttività?
Fino a qui le critiche già sollevate dagli addetti ai lavori. Ma c’è anche una parte positiva. Per esempio, per la prima volta si parla espressamente di società che svolgono “servizi di interesse economico generale”: sono le aziende che si occupano di gas, elettricità, acqua, rifiuti e trasporto, cui il legislatore ha riconosciuto un ruolo industriale. Si tratta delle utility che pur rappresentando solo il 20 per cento del totale coprono però l’80 per cento del fatturato complessivo. Dovranno essere soprattutto loro a “non perdere l’occasione”, così come ha fatto sapere Utilitalia, la nuova associazione che le rappresenta appena nata dalla fusione tra Federutility e Federambiente, (un piccolo contributo alla razionalizzazione).
Istat ieri ha dato una immagine dell’attuale giungla: delle 11.024 attività registrate, le imprese attive sono 7.685. E di queste ce ne sono ben 1.896 sono imprese da «zero addetti» e il 67,8 per cento delle aziende ha un solo proprietario. Fra un anno si saprà di quanto si è ridotta la percentuale.
Repubblica – 23 dicembre 2014