«Non erano cuccioli per famiglie ma animali destinati ai laboratori». A Green Hill i beagle venivano trattati in modo «adeguato». Adeguato al loro destino di morte fra atroci sofferenze sui tavoli della vivisezione o nei laboratori di aziende farmaceutiche.
L’allevamento di cani cavia di Montichiari avrebbe rispettato la legge, che al netto delle personali valutazioni etiche, prevede misure di tutela speciali (e per certi versi meno stringenti) rispetto alle norme previste per gli animali da affezione. È questa la tesi dei legali dei vertici dell’allevamento finiti a processo con l’accusa di maltrattamenti e uccisione di animali ingiustificata. La strategia degli avvocati Luigi Frattini ed Enzo Bosio che difendono i quattro imputati è emersa in modo chiaro dall’esame dei consulenti-chiave della difesa. Maurizio Fornasier, presidente della società italiana veterinari animali da laboratorio, e Fabrizio Reuca della facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia, hanno cercato di dare consistenza scientifica alla «verità» di Green Hill facendo riferimento in particolare alla normativa speciale sugli allevamenti di cavie e al resoconto dell’ispezione dell’Istituto Zooprofilattico di Brescia che portò all’archiviazione della prima inchiesta sull’allevamento sul Colle di San Zeno.
«Applicare il tatuaggio identificativo al posto del microchip risponde a una necessità di semplificare la registrazione dei cani e non provoca un surplus di sofferenze nei segugi». ha affermato Reuca. E ancora, i capannoni che ospitavano i cani erano effettivamente freddi d’inverno e troppo surriscaldati d’estate rispetto ai parametri, «ma quelle fissate dalla normativa non sono prescrizioni, ma suggerimenti – ha precisato Fornasier -. Il rumore provocato dall’abbaiare dei cani era sopportabile e non tale da provocare disturbi nevrotici ai beagle».
REUCA HA TOCCATO lo scottante nodo delle eutanasie. «Tutte quelle praticate nell’allevamento, comprese quelle su cani affetti da rogna, erano giustificate» ha sostenuto l’esperto. Ma sulla valutazione della terapia praticata per affrontare l’acaro della pelle, incalzato dal pm Ambrogio Cassiani e dal giudice Roberto Gurini, Reuca ha tentennato. Solo alla terza sollecitazione ha ammesso «che in quelle condizioni lo shampoo antisettico era la migliore soluzione possibile perchè ha permesso alla metà dei cani colpiti di guarire». Affermazione che ha aperto un altro fronte controverso. Fornasier aveva spiegato come i beagle di Green Hill dovessero rispettare i rigidi standard di asetticità, compresa l’assenza di qualsiasi malattia, per non inficiare i test farmaceutici a cui sarebbero poi stati sottoposti. Quando il pm ha però fatto notare che l’azienda aveva venduto anche cuccioli affetti da leggere dermatiti, Fornasier si è trincerato dietro un eloquente: «Dovrebbe chiederlo a chi li ha acquistati».
Ieri hanno preso la parola anche gli imputati. Bernard Gotti, consulente della Marshall, ha rilasciato delle dichiarazioni spontanee rivendicando la paternità del «codice etico di Green Hill», quel manuale che secondo la procura sarebbe stato invece utilizzato per eludere la legge sui maltrattamenti. «Il mio compito era di aiutare l’allevamento ad ottenere la certificazione Iso. Se avessi avuto il sospetto che a Green Hill si violava la legge mi sarei dimesso».
Il processo è stato aggiornato al 19 dicembre, quando sono attese le conclusioni di pm, difese e parti civili. In giornata potrebbe arrivare la sentenza.
Nello Scarpa – Il Giornale di Brescia – 1 dicembre 2014