Le attività dei liberi professionisti anche quest’anno devono far fronte a una difficile situazione del mercato, che oramai si protrae da diversi anni e ancora non vede la fine. E questo significa contrazione dei redditi, che per alcune professioni è stata sensibile mentre per altre più contenuta nella media, ma comunque pesante per le categorie più deboli (giovani e donne).
In questo scenario il legislatore sta intervenendo sul sistema pensionistico privatizzato con un sostanziale aumento della tassazione delle rendite finanziarie, che dal 1° gennaio passa dal 20 al 26%, dopo aver dato a intendere che questa tassazione sarebbe stata ritoccata al ribasso.
Una decisione che – almeno momentaneamente – ha distolto l’attenzione dal fondo dedicato a investire in infrastrutture che vedeva la partecipazione volontaria degli enti di previdenza dei professionisti e dei fondi di previdenza complementare. Un’idea che in molti altri paesi europei è già una realtà, e che il ministero dell’Economia stava portando avanti da alcuni mesi con incontri e confronti. Ora tutto è rimesso in discussione; un fondo ad hoc delle Casse per investire nel sistema Paese forse si farà ma quando, come e con quali eventuali incentivi fiscali è ancora tutto da decidere. Tutto si è fermato in attesa che sia concluso l’iter del disegno di legge stabilità; quindi intorno afine anno.
Un altro problema è quello della natura delle Casse, con la “doppia identità” tra privato e pubblico, causata dall’inserimento delle Casse nell’elenco Istat e che continua a fare dei danni. Un problema noto che nessuno, per ora, sembra intenzionato a risolvere.
Quest’anno la previdenza delle professioni – obbligatoria e di primo pilastro – si è avvicinata alla previdenza complementare – volontaria e di secondo pilastro – perché entrambe chiedono da tempo una politica lungimirante che guardi al futuro dei propri iscritti – parliamo quindi di un arco temporale di 20, 30 e anche 40 anni – e si trovano invece ad essere posti sullo stesso piano degli speculatori privati.
Troppi interventi dettati soltanto dall’emergenza conti
Il sistema pensionistico italiano si è trasformato da una programmazione sul futuro dei cittadini a una sorta di bancomat da cui prelevare, senza valutare l’impatto delle misure, a seconda delle esigenze di contenimento, più o meno marcate, della spesa pubblica. Dal 1989 ad oggi in media ogni tre anni i governi che si sono succeduti hanno realizzato revisioni più o meno significative del sistema pensionistico italiano. Troppo spesso sull’onda dell’emergenza di bilancio e quasi mai nel contesto di una previsione sensata “sul chi paga che cosa” o sulla sostenibilità economica di un diritto, quello acquisito, che diventa un iniquo provvedimento se va a prendere dalle tasche di coloro, i giovani, che di pensione ne vedranno ben poca.
Purtroppo, infatti, tutti i provvedimenti emanati non hanno ancora determinato una struttura che possa essere considerata definitiva e sostenibile sul medio lungo periodo: cioè una struttura equa nei confronti dei lavoratori, stabile sotto un profilo finanziario e soprattutto sostenibile da un punto di vista sociale. Anche perché il sistema previdenziale italiano è sempre stato impostato sulla previsione e necessità che l’economia crescesse. Da questo punto di vista, pur con i suoi problemi, essenzialmente dimensionali, il mondo delle Casse private è stato sempre più attento ai suoi conti, e, da tempo, passando dal sistema retributivo a quello contributivo, cerca di pagare assegni più “sostenibili” di quelli pubblici.
Dopo le “regalie” dispensate sino alla fine degli anni ’80, infatti, che avevano incrementato clamorosamente la copertura garantita dall’Inps sino a livelli insostenibili per le finanze pubbliche, la prima riforma che ha iniziato a ridurre la spesa pensionistica è stata quella emanata dal Governo Amato con la famosa finanziaria degli oltre 90mila miliardi di lire. Il Governo Amato intervenne sull’età pensionabile (incrementandola), sui requisiti contributivi richiesti per l’accesso alle prestazioni (irrigidendoli) e sul calcolo della prestazione. Si manteneva però quel metodo retributivo che solo la riforma Fornero ha cancellato introducendo, pur con gradualità, il metodo contributivo per tutti (pro rata dal 1° gennaio 2012) e incrementato decisamente i requisiti necessari per l’accesso alle prestazioni di vecchiaia o anticipata e bloccato la rivalutazione delle pensioni in corso di erogazione.
Nel frattempo, per ovviare alla riduzione della copertura garantita dall’Inps, si è tentato di sviluppare il settore della previdenza complementare. Tuttavia, pur in presenza di una significativa esigenza di copertura pensionistica addizionale, solo un lavoratore su quattro ha deciso di iscriversi a un fondo pensione. Il patrimonio posseduto dalle forme pensionistiche complementari è pari a circa il 7-8% del Pil, percentuali decisamente inferiori a quelle rilevabili negli altri Paesi europei.
Purtroppo le disposizioni ora contenute nella legge di Stabilità, che appesantiscono fiscalmente il trattamento dei fondi pensione e delle Casse di previdenza professionali non aiutano.
La norma presentata dal Governo prevede entrate dalle rendite finanziarie per 3,6 miliardi: di cui 1,2 miliardi arriveranno dall’aumento della pressione fiscale sulle fondazioni bancarie, sui fondi di previdenza e sulle polizze vita, che ora sono esenti Irpef per gli eredi, e che potrebbero essere sottoposte a una tassazione al 26% nella componente finanziaria. Dura stretta della legge di Stabilità sulla previdenza privata e complementare, quindi. Infatti, per le Casse di previdenza delle professioni la tassazione delle rendite finanziarie, ora al 20% salirà al 26% come per qualsiasi investitore privato; si è stimato che questo impatterà con un taglio di circa il 10% degli assegni pensionistici. E la richiesta armonizzazione dei fondi di previdenza complementare avverrà attraverso l’aumento della loro tassazione, ora all’11,5% e domani al 20 per cento.
Le Casse dei professionisti lo hanno detto con forza, chiedendo al governo di cambiare strada: si penalizzano i fondi pensione non capendo che un risparmio previdenziale, che di fatto finisce per alleggerire l’onere per il settore pubblico, è totalmente differente da una rendita finanziaria. Speriamo che l’idea si faccia strada tra gli esponenti del governo.
Immobili entro la soglia del 20%
le Casse l’investimento in immobili non potrà superare il 20% del patrimonio totale. È quanto prevede lo schema di decreto appena pubblicato sul sito del ministero dell’Economia e ora in consultazione che dovrebbe andare a regime il 1° gennaio 2015. Si tratta del regolamento che attua il Dl 98/2011 e sul quale è possibile inviare osservazioni fino al 5 dicembre.
All’articolo 9 («Limite agli investimenti») il comma 4 prevede che «gli investimenti diretti in beni immobili e diritti reali immobiliari devono essere contenuti entro il limite del 20% del patrimonio dell’ente». Tra gli altri limiti segnaliamo: 1 il limite del 30% per gli investimenti in strumenti finanziari non negoziati nei mercati regolamentati e i Oicr alternativi (FIA) compresi i fondi chiusi; 1 il limite del 5% in strumenti finanziari emessi da uno stesso soggetto e il limite del 10% in strumenti finanziari appartenenti a soggetti di uno stesso gruppo (sono previste alcune eccezioni).
Le Casse hanno diciotto mesi per adeguarsi al nuovo regolamento. Una tempistica diversa interessa le proprietà immobiliari. L’articolo 13, comma 2 prevede infatti che gli enti che alla data di entrata in vigore del regolamento detengono investimenti immobiliari superiori ai nuovi limiti hanno cinque anni per mettersi in regola. Adepp, l’associazione che rappresenta le Casse di previdenza dei professionisti in merito ha già evidenziato il rischio di immettere sul mercato un’eccessiva mole di immobili nell’arco di un quinquennio.
Il nuovo regolamento aggiunge alcuni oneri informativi (allegato A) e cioè: 1 il prospetto informativo a valori correnti, a cadenza annuale; 1 il documento sulla politica di investimento, che va sottoposto a revisione periodica almeno ogni tre anni ; 1 il documento sulla gestione dei conflitti d’interesse;
I tre documenti vanno inviati per l’approvazione al Mef e alla Covip almeno 20 giorni prima della delibera di approvazione.
Il risparmio previdenziale non è speculativo
Sono ormai trascorsi 20 anni dal momento della privatizzazione delle Casse dei professionisti, avvenuta nel lontano 1994, che ha comportato per la Cnpadc il farsi carico di un deficit implicito originato dal generoso sistema di calcolo vigente, che avrebbe a lungo termine causato danni irreversibili a un sistema giovane e demograficamente in rapida espansione, se non si fosse intervenuti con pesanti provvedimenti correttivi. Parliamo di un’assunzione di debito della quale hanno beneficiato, e per lungo tempo ancora lo faranno, le Casse di uno Stato, che dopo essersi trovato sgravato da un onere previdenziale “monstre”, continua ad assaltare le (altre) Casse, quelle dei professionisti, immaginandole con l’aiuto del legislatore a volte private e a volte pubbliche secondo alterne, e spesso contraddittorie, convenienze.
Date queste premesse, l’anno 2004 ha rappresentato per la Cnpadc lo spartiacque tra un generoso e allegro passato e un futuro più solido, ma impegnativo.
La Cassa, infatti, di fronte a proiezioni da bilancio tecnico che dimostravano in maniera impietosa un trend profondamente deficitario, si è impegnata per rendere credibili e sostenibili le promesse previdenziali, passando attraverso una riforma strutturalmente difficile, soprattutto per gli iscritti più giovani, in termini di maggiori contributi e minori prestazioni.
Aver messo in sicurezza per tempo le pensioni degli iscritti ha fornito alla Cassa il giusto slancio per proseguire un percorso di ammodernamento del sistema, con l’attenzione concentrata sull’adeguatezza delle prestazioni, indebolite dagli interventi necessari a ripristinare la sostenibilità finanziaria di lungo periodo.
È chiaro che la ricapitalizzazione del deficit implicito generato dal preesistente sistema, e l’accumulo dei montanti destinati a trasformarsi in pensioni necessitano di un costante monitoraggio e di una gestione oculata, mentre solo una lettura miope della situazione potrebbe portare a ritenere che le riserve accantonate negli ultimi anni siano equiparabili a utili non distribuiti a fronte di una attività commerciale, o speculativa, con cui lucrare rendite.
Al contrario, si tratta di puro “risparmio previdenziale” con cui far fronte alle promesse di trattamenti appena decorosi nel lungo periodo.
Tutti sanno che la funzione principale della Cassa è quella previdenziale, cui si affianca una seria politica assistenziale.
Non ci sono altri interessi all’orizzonte se non quelli degli associati, con particolare riguardo alle nuove generazioni che sono quelle su cui grava il doppio onere di contribuire per se stessi e ripianare gli squilibri creati dalle vecchie regole di quando le Casse erano pubbliche, al prezzo di pensioni mediamente inferiori del 35-40% rispetto al passato.
Così, nella ricerca di strumenti adatti a rendere gli assegni pensionistici più equi e, soprattutto, più consistenti, la CNPADC ha ritenuto opportuno progettare una politica di investimenti che si sviluppasse su due differenti binari: 1 cercare di ottenere rendimenti netti adeguati dai tradizionali strumenti finanziari, che la stessa detiene normalmente in portafoglio; 1 cercare di stabilire un percorso di stretta collaborazione con i principali interlocutori istituzionali, per dare un concreto sostegno all’economia reale del Paese, destinando una parte delle risorse disponibili in iniziative che prevedano condizioni di sicurezza e un rendimento nell’ottica del lungo periodo, secondo tempistiche facilmente adattabili alla logica con cui opera la previdenza.
Dopo aver visto la tassazione sulle rendite salire dal 12,5% al 20%, ostacolando in modo sensibile l’obiettivo di una maggiore adeguatezza delle prestazioni, incurante dell’impegno che la nostra Cassa, e molte delle altre realtà Adepp, hanno più volte dimostrato nel voler sostenere e rigenerare, in un momento particolare per l’economia nazionale, lo sviluppo del Sistema Paese, le previsioni contenute nella legge di Stabilità 2015, di portare il prelievo sulle rendite finanziarie della Cassa al 26%, risultano inspiegabili e contraddittorie.
Ancor più contraddittorie se si considera che un sacrificio anche maggiore viene imposto ai fondi gestori della previdenza complementare, che si stavano impegnando su un percorso parallelo al nostro, rispetto al rilancio dell’economia, e che nell’intero panorama europeo lo schema abitualmente adottato per la tassazione degli enti omologhi alle Casse è quello Eet (esente il versamento – esente la maturazione – tassata l’erogazione), con l’eccezione di Danimarca e Svezia, dove l’aliquota è nell’ordine del 15%, e il sistema di sicurezza sociale non è nemmeno lontanamente paragonabile al nostro.
Sappiamo perfettamente, d’altra parte, solo per dare qualche numero a dimostrazione di una ostilità fiscale ben poco razionale, che: e in generale, la fiscalità delle Casse di previdenza private e privatizzate pesa 400 milioni circa, rispetto ai più di 800 miliardi di uscite complessive dello Stato, si tratta dello 0,05% del bilancio; r in particolare, nel 2013, la Cnpadc ha versato imposte sostitutive su rendite finanziarie per circa 44 milioni (più 30 milioni rispetto al 2011).
Di fronte a questo quadro bisogna dare massima informazione rispetto a cosa potrebbe significare oggi un incremento dell’aliquota al 26% e a quali potrebbero essere i danni previdenziali che graverebbero sulle future generazioni, sacrificate al “Moloch” della spesa corrente, in un bilancio, quello dello Stato, che necessita di ben altri interventi strutturali.
Un bilancio che potrebbe avere ulteriori ampi benefici da una trasparente collaborazione tra tutte le istituzioni chiamate a costruire, gestire, sorvegliare lo sviluppo economico del Paese, nel segno di un corretto impegno previdenziale, e che rischia, al contrario, di vedere le risorse dirottate in altre direzioni.
Benefici che diventerebbero addirittura fondamentali per evitare il compiersi di un “delitto”: quello di avere – sulla base di quanto previsto dalla normativa pubblica e a fronte di un Pil negativo – i montanti dei lavoratori svalutati rispetto ai contributi realmente versati, arrivando ad un aberrante paradosso: un ulteriore depauperamento delle future prestazioni previdenziali, non solo perchè i rendimenti sul montante vengono falcidiati, ma perché addirittura viene svalutato il montante stesso.
Il Sole 24 Ore – 24 novembre 2014