La deadline è il 1?gennaio. È questo il termine entro cui deve essere operativo il Jobs act. Matteo Renzi lo ribadisce davanti all’assemblea dei parlamentari alla quale si presenta poche ore dopo il duro scontro con il neo presidente della commissione Ue Jean-Claude Juncker. La partita sulla riforma del lavoro per il premier è prioritaria e non solo perché, come ha detto ieri sera, «darà certezze a chi assume» favorendo la ripresa occupazionale fin dall’inizio del 2015, ma anche per il confronto non facile con Bruxelles.
Nessun aut aut stavolta: «Non ho mai visto una riforma del lavoro di sinistra come questa», insiste il premier, che ci tiene a sottolineare che sul Jobs act, «articolo 18 a parte», «c’è un consenso generale». Ma se ci sarà bisogno, «ci sarà la fiducia» perché – aveva detto poco prima a Ballarò – «i giochini interni del Pd non possono bloccare le riforme». L’inciso sull’articolo 18 non è certo secondario e Renzi lo sa bene. Ma in questo momento non ha senso spingere sull’acceleratore anche perché c’è ancora tempo (alla Camera è cominciata la sessione di bilancio). «Non su tutto la pensiamo allo stesso modo, ma ci attende una sfida immane per cambiare l’Italia. Si possono avere le idee più disparate su Jobs act, riforma costituzionale, scuola, ma ci deve tenere insieme la battaglia che stiamo facendo in Italia, che segna anche il futuro dell’Europa», è l’appello che ha lanciato ai parlamentari del suo partito non rinunciando però a una stoccata: «I corpi intermedi sono soggetti importanti, non siano autoreferenziali».
Il premier difende la Legge di stabilità «rivoluzionaria» perché «riduce le tasse anche quelle sul lavoro». Nell’intervista a Ballarò Renzi garantisce che «non ci sarà nessuna patrimoniale» e difende le scelta sull’anticipo del Tfr. Andare avanti, dimostrare che davvero questa «è la volta buona» per poter pretendere il cambio di passo nella Ue: «La prossima riforma strutturale è quella dell’Europa, perché da cambiare a Bruxelles c’è molto».
È un Renzi che attacca Bruxelles e meno tranchant sul fronte interno. Anche sulla legge elettorale. Il premier-segretario non rilancia la “minaccia” del suo vice a Fi di «rivolgersi altrove». Conferma che le regole si scrivono con «l’avversario» ma a Berlusconi chiede di «decidersi». L’Italicum «è un buon compromesso» e ribadisce le richieste del Pd, a partire dalla sostituzione del premio di maggioranza che deve essere assegnato non più alla coalizione ma alla lista, che, per evitare il ballottaggio, deve raggiunge almeno il 40% dei consensi. A Fi, o meglio a Berlusconi, offre invece di innalzare le soglie d’ingresso al 5%, garantendo in questo modo al Cavaliere il ritorno all’ovile dei partiti del centrodestra che altrimenti rischierebbero di rimanere fuori dal Parlamento. La riforma elettorale va fatta rapidamente ma a votare – garantisce – «ci torneremo nel 2018». Anche sul possibile cambio della guardia al Quirinale, Renzi conferma la disponibilità a confrontarsi con il Cavaliere: «Sarebbe bene che il presidente della Repubblica non sia solo espressione di una stretta maggioranza. Sono convinto che questo Parlamento sarà in grado di fare bella figura», osserva il Premier che aggiunge: «Ma ora il presidente della Repubblica c’è. È Napolitano, ed è di una solidità impressionante».
Il premier interviene anche sullo «stallo» per la Consulta. «Giovedì proviamo a chiudere», annuncia Renzi che conferma il sostegno del Pd alla candidatura di Silvana Sciarra, e sollecita Fi a decidersi confermando poi la disponibilità ad appoggiare per il Csm il candidato del M5S.
Non poteva mancare un passaggio sulla crisi dell’Ast. «Credo e penso che si possa trovare un accordo», ha anticipato, anche perché «Terni senza acciaio è una città fantasma». Il premier però chiede che non vengano usate «le vertenze aperte per polemiche politiche». Un modo più edulcorato per confermare il duro giudizio espresso il giorno prima a Brescia contro coloro che «sfruttano il dolore dei disoccupati e dei cassaintegrati». «Trovo di cattivo gusto che si critichi la mia frase detta a Castelvetrano in cui affermavo che non c’è un consiglio comunale in cui non ci sono elementi eletti da Cosa nostra. Non è l’affermazione di un pm, è il grido pasoliniano di chi dice “Io so ma non ho le prove”». Lo ha detto ieri Rosario Crocetta. Crocetta è il governatore della Sicilia, la regione dove la disoccupazione è ai record europei (23%) e che – come scrive la Corte dei conti – è «a serio rischio, per il futuro, per il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio” perché l’89% del suo bilancio va in spesa corrente.
Il Sole 24 Ore – 5 novembre 2014