Maurizio Tropeano. Il D-Day si avvicina e gli allevatori italiani aspettano la fine del sistema delle quote latte tra qualche luce – il 37% di un campione di 300 interviste – si dice pronto ad aumentare la produzione e molte ombre: 1 su 4 è praticamente certo di abbandonare l’attività in tempi brevi. Il motivo? Non ci sono eredi (41%) ma una burocrazia che stritola (31%) senza dimenticare l’insufficiente redditività (19%).
Il sondaggio – realizzato dal centro ricerche di produzioni animali e dall’Ismea – è stato presentato in occasione dell’edizione numero 69 delle fiere zootecniche internazionali di Cremona.
Secondo i ricercatori a «scegliere di aumentare la produzione sono soprattutto le realtà di medio-grandi dimensioni, per le quali il potenziale di crescita stimato si aggira intorno al 10%». E lo fanno nonostante «il prezzo del latte italiano con ogni probabilità non saprà rivelarsi competitivo». Del resto Ismea ha messo in evidenza come anche nel terzo trimestre del 2014 prosegua il calo dei prezzi per i prodotti lattiero caseari che perdono il 3,7 per cento rispetto ai tre mesi precedenti e lo 0,7 annuo.
La fine del sistema quote-latte rischia di aggravare questa situazione. Secondo i ricercatori dall’anno prossimo la produzione di latte in Europa si concentrerà soprattutto nell’area nord-occidentale, con l’Irlanda sicura protagonista. L’Italia, invece, rischia seriamente di perdere posizioni. Del resto il tasso di crescita previsto per le aziende irlandesi è tra il 30/35% e quelle tedesche al 15%. Per il 2015 negli stati del Nord Ovest si attende «un incremento pari a 10 milioni di tonnellate, tanto quanto l’intera produzione annua italiana». E quasi certamente quel «surplus di latte» è destinato a riversarsi soprattutto nella zona mediterranea, «in particolare in Spagna, Grecia e Italia».
La deficitaria situazione italiana è dovuta essenzialmente ai proibitivi costi di produzione: su un campione di 33 aziende il Centro Ricerche Produzioni Animali ha calcolato un costo totale medio di 55 euro al quintale. Un valore troppo alto per consentire una sufficiente marginalità. La conseguenza, secondo i ricercatori è «il concreto rischio di chiusura delle aziende in un prossimo futuro». Senza dimenticare che in Italia non è stato creato un numero adeguato di OP e non si è provveduto ad affrontare concretamente il tema dell’interprofessione.
Per i produttori italiani un qualche spiraglio potrebbe aprirsi grazie alla costante crescita di domanda globale di latte: «Sia in Africa che in Cina nei prossimi dieci anni la richiesta di latte scremato in polvere aumenterà del 50%», spiegano i ricercatori Ismea. In questo scenario, però, molti players internazionali si sono attrezzati con tempismo, tanto che l’offerta mondiale «crescerà di 180 milioni di tonnellate da qui al 2023» con l’India probabilmente destinata a diventare leader assoluta anche grazie ad un «incremento della produzione del 51%». Sullo sfondo restano comunque dei problemi da risolvere perchè «anche i Paesi più intraprendenti e favoriti dai bassi costi produttivi non sono, comunque, esenti da rischi». Secondo i ricercatori le incognite maggiori sono rappresentate dalla volatilità dei prezzi, la discontinuità del mercato, oltre all’instabilità politica di numerose piazze d’esportazione.
La Stampa – 26 ottobre 2014