Giovani sempre più in ritardo sugli anziani. Dal lavoro ai risparmi, dagli investimenti alle prospettive di pensione: una frattura generazionale che rischia di diventare una voragine. I giovani di oggi vivono in un ambiente “ostile”, inseguiti da un passato carico di privilegi (nelle tasche altrui) e di debiti (sulle proprie spalle). E anche l’alto livello di istruzione non funziona più da ascensore sociale: il 30% dei giovani sperimenta una mobilità «discendente» rispetto alla famiglia di origine e peggiora lo status rispetto ai genitori
La corsa a ostacoli dei giovani. Risparmio, lavoro, stipendi e redditi: si accentua lo svantaggio rispetto agli anziani
«Stiamo rischiando di perdere un’intera generazione di europei» ha detto la settimana scorsa Matteo Renzi a Milano, a margine del vertice Ue su crescita e lavoro. E i rischi maggiori li stiamo correndo proprio noi. I giovani italiani sono circondati sempre più da anziani, esodati, pensionandi e pensionati.
Sono perlopiù sottoccupati, emigranti per necessità o Neet (sigla che sta per Not in education, employment or training). Senza un impiego e con titoli di studio spesso “inutili” sognano una casa, magari dei figli, ma restano giocoforza a carico di mamma e papà fino alla soglia degli “anta”. Facile, allora, parafrasare il grande romanzo di Cormack McCarthy: l’Italia non è un Paese per giovani. Vivono in un ambiente “ostile”, come imprigionati all’interno di un’auto con le portiere bloccate, il motore in panne, parabrezza e vetri offuscati; l’unico punto di fuga verso cui guardare è lo specchietto retrovisore. Inseguiti da un passato carico di privilegi (nelle tasche altrui) e di debiti (sulle loro spalle).
Una volta, per cercare di migliorare la propria posizione sociale, si affidavano allo studio. Ma anche la scuola non funziona più da ascensore sociale. Come ha rilevato il Censis, al primo ingresso nel mondo del lavoro, solo il 16,4% dei nati tra il 1980 e il 1984 è salito nella scala sociale rispetto alla condizione di provenienza, il 29,5% ha invece sperimentato una mobilità discendente rispetto alla famiglia di origine.
Tra i 30-34enni gli italiani laureati sono il 20,3% contro una media europea del 34,6% e chi può va a studiare all’estero (+51% di iscrizioni in atenei stranieri in un quadriennio e circa 30mila under 35 expats ogni anno, principalmente verso Germania, Gran Bretagna e Svizzera). Quando cercano un lavoro, per i giovani è come scovare un ago in un pagliaio e, nel caso riescano a trovarlo, spesso è a tempo determinato o con altre formule flessibili(in otto casi su dieci tra le nuove assunzioni).
Intermittente a tal punto da “spegnerne” anche la capacità di risparmiare o investire. Come rileva uno studio di Assogestioni (vedi articolo a fianco), in un contesto in cui i fondi gestione nel 2014 hanno inanellato mese dopo mese una serie di record, i risparmiatori fino a 35 anni (solo il 5,6% dei giovani italiani, ma con un trend in discesa del 7,3%) detengono il 6,3% del patrimonio (gli over 65 il 22% e gli over 75 addirittura il 24%).
I giovani sono molti di meno rispetto al passato, come osserva il demografo Giancarlo Blangiardo: «La popolazione in età 15-29 si è ridotta di oltre 4 milioni rispetto ai primi anni Novanta, una caduta derivante dall’insufficiente ricambio generazionale che non è stato compensato dai flussi migratori». Ma, nonostante siano in pochi, faticano di più a trovare lavoro.
La lunga crisi, infatti, ha ristretto le opportunità d’impiego, con una disoccupazione giovanile che veleggia oltre il 40% da molti mesi. I senza lavoro tra i 15-24enni sono 710mila, con un incidenza sulla popolazione di questa fascia di età pari all’11,9 per cento.
Il parallelo con i propri genitori, poi, è impietoso: rispetto agli anni Settanta il tasso di occupazione dei giovanissimi si è più che dimezzato (dal 38% di allora al 15% di oggi) – in base alle elaborazioni del centro studi Datagiovani – mentre la disoccupazione è quadruplicata (era al 10% quarant’anni fa).
Con queste premesse, non stupisce il fatto che gli stipendi dei ragazzi al primo impiego superino di poco gli 800 euro mensili, ristagnando da circa 15 anni al di sotto dei livelli degli anni Ottanta e con redditi in costante calo da inizio crisi (-13 per cento dal 2008 al 2012).
I risultati di questo scenario a tinte fosche? La generazione Neet oggi conta ormai 3,5 milioni di proseliti tra gli under 35 e la percentuale di 25-34enni che vive ancora con mamma e papà è passata dal 30% degli anni Novanta a oltre il 40% di oggi.
Il Jobs act, che debutta questa settimana alla Camera, riuscirà a farci uscire dal pantano? Sulla carta i propositi sono tanti, a partire dall’obiettivo di «promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forme privilegiata di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi in termini di oneri diretti e indiretti». Per ora risuona il monito del presidente Bce: «Chi non crea lavoro sparirà – ha detto Mario Draghi rivolto ai politici europei -. I giovani vanno assunti invece che licenziati».
Pensioni sempre più «mini». Per i redditi molto bassi tempi allungati per avere diritto all’assegno
Un effetto a cascata sulle pensioni. Il calo dei redditi oggi si ripercuote sugli assegni futuri. Soprattutto per i giovani. Non solo dipendenti, ma anche collaboratori e professionisti.
Universo atipico
Con i loro contributi e un saldo previdenziale attivo di circa 7 miliardi all’anno consentono al sistema pensionistico italiano di arginare il disavanzo complessivo. Gli stessi contributi, però, con ogni probabilità non basteranno ai giovani per raggiungere una pensione adeguata. Sono gli iscritti alla gestione separata dell’Inps: platea eterogenea di circa 1,3 milioni di “atipici” che spaziano dai collaboratori occasionali o a progetto agli associati in partecipazione, passando per venditori porta a porta e sindaci di società.
Un “plotone” che il Governo – nel riordino delle forme contrattuali previsto dal Jobs act – pare intenzionato a sfoltire, togliendo le formule più esposte agli abusi. E che vede il 20% degli iscritti sotto i 30 anni: oltre 233mila persone, per lo più collaboratori a progetto (150mila) che neanche a dirlo guadagnano meno di tutti (5mila euro in media l’anno tra i cocopro) e da cui derivano contributi pensionistici modesti. In oltre un caso su tre (si veda Il Sole 24 Ore del 6ottobre) i giovani non riescono ad accreditare nemmeno un mese di contributi, mentre circa il 44% accantona da uno a cinque mesi. E, in più, il costo dei versamenti è aumentato nel corso degli anni. All’avvio, nel 1996, era previsto un contributo del 10% sul reddito e un assegno finale calcolato in base al cosiddetto metodo contributivo puro (equivalente ai contributi versati rivalutati secondo l’andamento del Pil). Nel periodo seguente, con il fine nobile di incrementare la copertura pensionistica, l’aliquota è stata aumentata, arrivando oggi – per la maggior parte dei lavoratori – al 28,72% e raggiungerà il 33,72% nel 2018.
Nonostante ciò la pensione finale risulterà particolarmente contenuta. Anche perché al di sotto di un determinato reddito annuo (per il 2014 circa 15mila euro) all’iscritto non viene accreditato un intero anno di anzianità contributiva (ma un periodo proporzionalmente inferiore). Nei calcoli a lato – relativi a tre lavoratori iscritti per la prima volta alla gestione a inizio 1996, 2001 e 2006 – si sono ipotizzate quattro diverse soglie di reddito annuo: il livello minimo per il riconoscimento di tutto l’anno di servizio, il 50% di questo reddito, tre volte tanto e, infine, un guadagno pari a 120mila euro, più elevato del massimale pensionabile e contributivo previsto dalla gestione, attualmente pari a 100mila euro, oltre il quale i contributi non sono più dovuti e la pensione finale non fa “scatti in avanti”.
Le proiezioni evidenziano in primis come il pensionamento si ritardi sensibilmente nel caso in cui il lavoratore percepisca un reddito annuo inferiore al minimo di 15mila euro. La prestazione invece sale al crescere della data di iscrizione alla gestione (le aliquote più elevate introdotte nel tempo determinano infatti un incremento della pensione finale). In ogni caso, pur in uno scenario favorevole determinato ipotizzando una stabilità di rapporti nel tempo, l’importo degli assegni appare contenuto (al limite, se non al di sotto, della soglia di povertà). Diversa sembra invece la situazione dei più ricchi, ma anche nei loro confronti, la copertura previdenziale è influenzata parecchio dal “tetto” contributivo.
Le pensioni dei professionisti
Il “flop” dei redditi e il progressivo passaggio dal sistema retributivo a quello contribuivo della maggior parte delle Casse di previdenza sta avendo ripercussioni neg – tive anche sulle pensioni dei giovani professionisti. Di recente a suonare il campanello d’allarme è stato Luigi Pagliuca, presidente della Cassa dei ragionieri: «Se e quando andremo in pensione, lo faremo con un assegno di 800 euro». E le Casse provano a correre ai ripari, affiancando al trattamento pensionistico una serie di misure di welfare specifico come forme di protezione indiretta e quindi sostegno economico.
«Il budget totale supera i 450 milioni di euro annui – spiega Andrea Camporese, presidente Adepp, l’associazione che rappresenta venti casse –: coperture sanitarie, prestiti a basso tasso, modulazione delle aliquote in base all’età e all’ingresso nel lavoro, incentivi all’apertura di studi, interventi in caso di eventi imprevedibili e cali di reddito sono solo alcuni dei capitoli affrontati». Senza contare le possibili strategie “redistributive”. «Un esempio – suggerisce Camporese – è la leva fiscale su cui si può agire eliminando la doppia tassazione, sul rendimento finanziario dei versamenti e sulla pensione erogata, che vede l’Italia un unicum in Europa. Questo permetterebbe di liberare nuove risorse per attenuare in primis il gap generazionale. E poi la possibilità, che chiediamo da tempo, di redistribuire gli utili da investimenti non limitandoci alla norma di legge che prevede, nelle gestioni separate, una rivalutazione dei montanti in base alla media quinquennale del Pil. La previdenza – conclude – non può essere un sistema rigido, ma deve in parte adeguarsi ai mutamenti impetuosi del mercato del lavoro. Anche le nuove linee di finanziamento con fondi europei possono svolgere un ruolo nell’ambito del riequilibrio generazionale».
Italia fragile nella sostenibilità del sistema
La prospettiva Per le future generazioni c’è la concreta possibilità di avere un sistema pubblico poco adeguato nell’erogare le prestazioni
Un sistema basato su una buona governance, in grado di fornire un livello di prestazioni adeguato. Queste le due buone notizie per il sistema pensionistico italiano. L’allarme scatta alla voce sostenibilità nel mediolungo periodo: il giudizio qui precipita al minimo.
Arriva dall’Australia l’ultimo warning sulle prospettive future delle pensioni nel nostro Paese. A lanciarlo è il Melbourne Mercer global pension index (Mmgpi), report realizzato da Mercer e da Australian centre for financial studies, consorzio di diverse università australiane sovvenzionato dallo Stato di Victoria, che viene presentato oggi.
Per la prima volta il report, giunto alla sesta edizione, analizza la situazione nel nostro Paese e, in un ventaglio di 25 Paesi che comprende le principali economie occidentali e i Brics, ottiene un poco lusinghiero 19? posto. Non una bocciatura in toto ma un severo monito che si aggiunge a quello incassato mercoledì scorso quando Andrea Montanino, direttore esecutivo del Fmi durante la presentazione del “country report” aveva detto: «L’Italia, con le condizioni attuali non è un Paese per cui si possa assicurare un futuro radioso o quanto meno sereno».
Sull’Italia pesano inoltre fattori come l’andamento demografico, quello della previdenza complementare e gli aspetti contributivi. «Solo un lavoratore su quattro ha scelto la via della complementare e l’immigrazione forse tamponerà, ma solo nel breve periodo, il calo della popolazione attiva – spiega Roberto Veronico, responsabile retirement di Mercer Italia –. Il tasso di disoccupazione inoltre continua a crescere, il flusso dei contributi cala e i giovani precari non sono in grado di costruirsi la loro pensione».
Prospettive oscure per le prossime generazioni, appesantite da troppi Neet, quei 15-29enni che non studiano né lavorano mentre la maggioranza nei casi migliori trova occupazioni temporanee. «Oggi siamo uno dei Paesi che più spende in pensioni e per i giovani c’è la prospettiva di una adeguatezza minimale – rimarca Vincenzo Galasso, ordinario di economia politica della Bocconi –. Un domani rischiamo di trovarci con un sistema sostenibile ma poco adeguato nelle prestazioni». Secondo il docente una via d’uscita c’è: andrebbe incentivata l’adozione delle pensioni complementari. Una via condivisa da Veronico che indica anche la necessità di diminuire il debito pubblico e puntare sul ricambio generazionale.
Nella classifica Mmgpi la Danimarca è al primo posto e precede, Australia, Olanda, Finlandia, Svezia e Svizzera: questi i Paesi che hanno ottenuto le migliori valutazioni. Nel complesso i punteggi medi, al 64,3 dal 61,7 del 2010, hanno visto un miglioramento, segno che le riforme varate stanno avendo un effetto positivo. L’Italia, nonostante il progressivo aumento dell’età pensionabile, è invece nella parte bassa della classifica in compagnia di Messico, Cina, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, con l’India in ultima posizione. Una rosa di Paesi con debolezze che rischiano di penalizzare l’efficacia e sostenibilità dei rispettivi sistemi.
I calcoli del Melbourne index seguono un approccio multi-pilastro, ovvero un mix tra pubblico (obbligatorio) e privato complementare oltre ai risparmi e altri introiti delle famiglie. L’indice è costruito su oltre 50 indicatori che fanno capo alle tre macro-aree: adeguatezza, sostenibilità e integrità. Nella prima sono compresi anche l’architettura del sistema previdenziale, i rendimenti degli investimenti e i risparmi privati come l’abitazione. Nella sostenibilità rientra lo stock di sottoscrizioni ai fondi di previdenza complementare, ai fondi pensione oltre agli elementi demografici, la contribuzione e il debito pubblico. L’integrità valuta, tra gli altri, normativa e governance del rischio pensionistico, il livello di fiducia che i cittadini hanno verso il sistema previdenziale.
Il Sole 24 Ore – 13 ottobre 2014