Il corpo trovato in Abruzzo, nei dintorni c’erano bocconi con sostanze letali . Sospetti sugli allevatori stanchi delle razzie Dal web inviti a boicottare gli alberghi trentini: arrivano le prime disdette. E Cortina provoca: venite da noi, non li uccidiamo
NON si ferma la strage degli orsi, si sposta solo dalle montagne del Trentino a quelle dell’Abruzzo. Tre giorni fa è toccato a Daniza, mamma di due cuccioli che ora sono anche soli e a forte rischio tra i boschi delle Dolomiti. Ieri, invece, è stato ritrovato vicino a un ruscello del monte Genzana (a pochi passi dal piccolo centro abitato di Pettorano sul Gizio) un orso marsicano, morto ancora prima di avere un nome. Molto probabilmente è stato avvelenato. Ma mentre per Daniza sarebbe stato utilizzata, durante la cattura, una siringa di narcotico troppo potente, in Abruzzo le trappole sarebbero state disseminate da alcuni allevatori stanchi degli assalti ai loro pollai. E a provarlo non sono solo alcuni bocconi avvelenati trovati poche ore dopo nella zona, ma anche tante stalle recintate con il filo spinato elettrificato. A dimostrazione che a Pettorano come in Val Borzago, gli orsi non sono i benvenuti. Anzi, se danno troppo fastidio finisco per essere uccisi. Nel parco nazionale d’Abruzzo e Molise sono avvenuti quattro decessi solo nel 2014, senza considerare l’avvelenamento accertato del plantigrado che tutti chiamavano Bernardo avvenuto un anno fa.
Per “l’incidente” di ieri la procura di Sulmona ha aperto un’inchiesta. «Faremo un’autopsia» ha spiegato il vice questore della forestale Luca Brugnola. «L’orso presenta segnali compatibili con un avvelenamento» ha aggiunto «ma per avere certezze bisognerà attendere le analisi».
E intanto in rete monta la protesta. In Trentino spunta anche l’ipotesi di un boicottaggio turistico, con un tam-tam sui social media che invita a disertare le località di vacanza della provincia autonoma di Trento e a eliminare i prodotti trentini dalla lista della spesa. E c’è già chi è passato dalle minacce ai fatti. A Riva del Garda gli organizzatori della gara sportiva “Half Marathon” hanno ricevuto le prime disdette.
Di certo per la provincia di Trento — che per anni ha goduto della pubblicità gratuita garantita dalle apparizioni dei suoi orsi — il conto da pagare sul piano dell’immagine rischia di essere molto salato. E poco importa se in Svizzera e in Baviera negli anni scorsi gli orsi provenienti dal Trentino (che avevano sconfinato) sono stati abbattuti a fucilate.
E non è tutto, il sindaco di Cortina d’Ampezzo, Andrea Franceschi, lancia anche un appello beffardo: «Venite in vacanza nelle Dolomiti bellunesi, noi non uccidiamo le mamme orse». Almeno fino ad oggi.
E l’Italia si scoprì un paese di animalisti a corrente alternata
«I francesi amano i cani, ma mangiano i cavalli. Gli spagnoli amano i cavalli, ma mangiano le mucche. Gli indiani amano le mucche, ma mangiano i cani ». E gli italiani amano gli orsi, dopo averli ammazzati. La parte tra virgolette è una citazione dal libro dello scrittore americano Jonathan Safran Foer «Eating animals» (in italiano, oscuramente: «Se niente importa»).
L’aggiunta prosegue il cortocircuito delle contraddizioni di una coscienza animalista universalmente ondivaga, a cui questo Paese non ha saputo fare eccezione. Quello che è corso ieri lungo la spina dorsale italiana, dopo l’uccisione dell’orsa Daniza è parso un fremito: violento e incontrollato. Poi il brivido passa, la pelle s’alliscia e si va al ristorante twittando d’altro.
Come spesso accade: la causa è giusta, le sue espressioni discutibili.
Partiamo dalla fine. Nei boschi del Trentino viene ammazzata (giustiziata o con preterintenzione) un’orsa che era stata lì portata per ripopolare quegli stessi boschi di orsi, appunto, non di funghi. Dove non c’è logica, non c’è destrezza. La reazione all’evento è emotiva e travolgente. Minacce di morte al fungaiolo ferito che innescò la caccia, strumentale richiesta di dimissioni del ministro dell’Ambiente (di cui appuriamo nella circostanza le generalità).
Più, come appare (ma non è) inevitabile nell’era dei social, manciate di ironia e una spruzzata di cinismo. La morte dell’orso è sempre tragica, le reazioni a volte virano sul comico.
Nel 2006 i tedeschi uccisero Bruno, che aveva sconfinato partendo dall’Adamello e la vittoria azzurra in semifinale a Dortmund fu considerata una vendetta voluta dal cielo. L’orso è portatore di memorie e fantasie. Ci ricorda l’infanzia dei peluche e dei cartoni animati e allude a un desiderio di vita naturale e selvaggia che si coltiva intrappolati fra pareti e si esprime con supporti tecnologici. Con lui (o lei) si uccidono i fantasmi dell’innocenza e della libertà. Che lo sdegno eguagli o superi quello per un reporter dilaniato in zona di guerra o una suora massacrata in Africa è un paradosso, ma di quelli scontati: l’orso appartiene al nostro caro immaginario, reporter e suora abitano lontane e sconosciute periferie di realtà. Le stesse in cui vengono uccise ogni giorno migliaia di animali per il nostro nutrimento, dopo essere stati allevati in condizioni non solo vergognose ma igienicamente inaccettabili per loro e per l’ignaro fruitore di quelle carni. Si prepara una grande marcia contro il riscaldamento globale, ma pochi dicono (e quindi quasi nessuno sa) che la prima causa non è l’uso di mezzi di trasporto, ma l’allevamento industriale.
Si diffonde una coscienza animalista, ma a corrente alternata: ogni tanto un sussulto. Possibilmente, quando i riflettori sono accesi.
Come ogni causa, anche questa ha tre nemici: il sensazionalismo, la faziosità, l’integralismo.
Il consenso si costruisce educando e informando. Invece parte la denuncia per maltrattamenti a Luciana Litizzetto, colpevole di aver portato un maiale (drogato?) in tv per irridere il porcellum.
La replica fa più ridere della battuta.
La battaglia dovrebbe essere combattuta da un fronte compatto e trasversale, invece si disperde in una miriade di sigle e diffidenze. Chi è di destra vede l’attivismo come un passatempo per cattocomunisti no tav. Chi è di sinistra irride l’impegno di Michela Brambilla, troppo appariscente e berlusconiana per essere genuina.
Ma l’ostacolo peggiore è l’integralismo. Quando chiesi a Safran Foer se ci fossero state reazioni negative al suo libro pensavo alle industrie alimentari. Rispose: «No, no, quelle han tutto l’interesse a tacere, a non creare dibattiti. Ad arrabbiarsi son stati i difensori dei diritti degli animali. Per loro non sono stato abbastanza assoluto, ho detto solo che bisogna mangiare meno carne e allevata igienicamente. Ma io non sono un talebano».
Non essere talebani è uno svantaggio in quest’epoca in cui il confronto d’opinioni fa ricorso alla ragionevolezza quanto due curve in un derby calcistico. Eppure, fino a prova contraria, appare evidente che è rischioso affidarsi senza riserve alla natura o alla provvidenza: si può finire sbranati o sgozzati. Il ragazzo che andò «Into the wild» non è mai tornato indietro, e così chi si avventura «in terre selvagge» del pensiero che non riconoscono più il principio di non contraddizione. Ripopolare e non controllare è assurdo quanto credere che gli animali siano tutti figli di Walt Disney. O trascurare che mentre ancora ci si commuove per Deniza, altre creature soffrono e muoiono non solo invano ma per danneggiare involontariamente la nostra salute, dimostrando la validità dell’affermazione di George Orwell: «Gli animali sono tutti uguali, alcuni più degli altri».
Repubblica – 13 settembre 2014