La tabella dalla quale si parte, e che in questi giorni viene girata e rigirata sui tavoli di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia, è quella delle spese che graveranno il prossimo anno sul bilancio dello Stato: è più o meno la stessa da parecchi anni. Nel 2015 il totale, al netto degli interessi ammonta a 735 miliardi.
Ma non è questa la cifra dalla quale partirà oggi il confronto tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e gli agguerriti ministri di spesa, che abbasseranno oggi la bandierina dello start della grande corsa della legge di Stabilità che durerà circa un mese.
Se infatti si considerano i tre grandi aggregati della spesa pubblica – pensioni, sanità e stipendi come incomprimibili, e come ha in qualche modo fatto supporre ieri Renzi, la massa da aggredire scenderebbe a 200 miliardi e allora la partita diventa più difficile da giocare: il 3 per cento, parola d’ordine dei tagli, non basta a fare 20 miliardi, ma solo 6 miliardi.
La torta da aggredire sembrerebbe ridursi sempre di più e ieri il presidente del Consiglio è sembrato assecondare questa tendenza. Ha dichiarato che non toccherà le pensioni alte e dunque presumibilmente neanche quelle basse: «Non vogliamo suscitare panico», ha detto. Al riparo potrebbe tornare anche il comparto degli stipendi pubblici: per ora Renzi ha annunciato che si possono trovare le risorse per lo sblocco dei salari e per gli scatti di anzianità delle forze dell’ordine. Meno assicurazioni sono giunte per la sanità anche se il presidente del Consiglio si era impegnato, prima dell’estate, a non intervenire.
«Chiederò ai ministri la lista dei tagli», ha annunciato ieri il premier nel salotto di Bruno Vespa. Ma i titolari dei dicasteri di spesa già rumoreggiano. In prima linea il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin: “Un ulteriore intervento? Metterebbe in crisi il sistema universalistico». Levata di scudi anche da parte del ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini: «Le risorse per la cultura non si toccano», ha detto ieri. Più cauta Federica Guidi, ministro per lo Sviluppo economico, che ha detto di essere pronta a «fare la propria» parte. Il clima è tuttavia caldo.
Per Renzi inoltre i 20 miliardi, dovunque si troveranno, non serviranno per ridurre il deficit, operazione del resto sconsigliata con la recessione in atto da tre anni consecutivi. Al contrario la “Stabilità” sarà espansiva: 10 miliardi saranno necessari per rinnovare il bonus da 80 euro e parte delle risorse recuperate dalla manovra saranno «reinvestite» (per 1 miliardo al piano scuola ed altre andranno a «settori strategici»).
Cruciale sarà dunque il metodo. Non quello dei tagli lineari: nel senso che l’obiettivo è il 3%, su un aggregato che si riduce di giorno in giorno. Ma tagli «semilineari», dunque con una qualche correzione di spending review intervenendo solo in parte sulla base dei suggerimenti mirati di Cottarelli per il resto i ministeri faranno quello che potranno.
Ci sono altre risorse fuori del perimetro tradizionale dei tagli? Una delle poste su cui si conta, è quella della spesa per interessi, in discesa dopo le mosse di Mario Draghi: almeno 3 miliardi potrebbero essere risparmiati e utilizzati. Invece solo una piccola «mancia» verrà dalla rivalutazione del Pil: 0,1 sul deficit che Renzi stesso ha definito «robetta». L’altra fonte di gettito, valutata dal premier in 3 miliardi sarà la lotta all’evasione: tutta da rilanciare contando sull’Agenzia delle entrate di Rossella Orlandi e sul rientro dei capitali dalla Svizzera che dalla prossima settimana entrerà in dirittura finale in alla Camera.
In questo quadro solo la partita europea potrà rappresentare una ciambella di salvataggio. Se il vertice in «camicia bianca» con i leader del Pse avrà forza di impatto su Bruxelles, e soprattutto riuscirà a superare la forte opposizione di Angela Merkel, si potrà aprire qualche varco. Tre i sono i settori che l’Italia punta ad escludere dal calcolo del deficit-Pil: gli investimenti, il cofinanziamento dei fondi europei e la cassa integrazione. Nel frattempo il governo sembra aver deciso di non tenere conto dell’obiettivo di deficit- Pil fissato nel Def dell’aprile scorso all’1,8 per cento e di salire al 2,3 e forse ancora più in alto, ma restando sotto il 3.
Repubblica – 10 settembre 2014