di Sergio Rizzo. Dovremmo spiegarlo al commissario per la spending review Cottarelli: i dirigenti pubblici italiani hanno uno stipendio pari a 10,17 volte quello di un comune mortale perché sono bravissimi!
Al commissario della spending review Carlo Cottarelli si deve una spiegazione. Se come ci ha detto i dirigenti pubblici italiani hanno uno stipendio pari a 10,17 volte il reddito medio di un comune mortale, che significa il doppio rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna e due volte e mezzo in confronto alla Germania, c’è un motivo: sono bravissimi.
Prendete ad esempio quelli della Regione Liguria. Racconta Emanuele Rossi sul Secolo XIX che i nove superdirigenti della giunta di Claudio Burlando hanno avuto anche l’ultimo anno valutazioni quasi al top. Novantasei su cento per otto di loro, il che vale un incentivo del 21,12 per cento in più sullo stipendio di circa 140 mila euro. Con il nono bravo bravissimo, Roberto Murgia, che li guarda dall’alto da uno stratosferico punteggio di ben novantasette. Per lui, un bonus del 21,34 per cento. Complimenti a tutti quanti. Anche se, diciamo la verità, quel novantasei collettivo, con un novantasette fuori ordinanza, assomiglia tanto a cose già viste.
Ricorda, per dirne una, quel mitico 2006: quando si scoprì che non c’era uno solo, fra i 3.769 dirigenti massimi della nostra pubblica amministrazione, che non avesse raggiunto il punteggio massimo per garantirsi integralmente la parte variabile della retribuzione prevista dal contratto. Una coincidenza formidabile, ma resa possibile da un meccanismo di valutazione che lasciava senza parole. I dirigenti pubblici dovevano compilare una scheda di autovalutazione (autovalutazione, avete capito bene), che toccava al dirigente superiore vidimare. E così via, fino in cima alla piramide. Facile comprendere che di fatto avrebbe fatto fede solo il giudizio che il singolo dirigente dava di sé.
Idem nelle aziende pubbliche. Normalmente il compenso dei manager di Stato o delle imprese controllate da Regioni ed enti locali è suddiviso in due parti: quella fissa e quella variabile. E basta dare un’occhiata alle relazioni della Corte dei conti per verificare che tutti, almeno negli anni più recenti, hanno sempre incassato il massimo di quella fetta dello stipendio che dovrebbe essere vincolata ai risultati. Il cento per cento. Ma è più che comprensibile, se non si sa nemmeno chi dovrebbe fare le valutazioni. E se chi dovrebbe farle, poi non le fa. O non le può fare come dovrebbe, considerando che i manager delle imprese pubbliche sono scelti dalla politica: di conseguenza, quali sono i risultati reali che devono raggiungere? Un conto economico brillante, dei servizi decenti, o piuttosto l’esecuzione delle direttive del partito che lo ha piazzato in quella posizione? Bella domanda…
Soltanto in questo modo si possono conciliare due cose apparentemente inconciliabili. Il più alto livello europeo di retribuzioni della dirigenza con il più basso livello di efficienza dei servizi della pubblica amministrazione centrale e locale. A questa situazione incresciosa avrebbe dovuto metterci una pezza l’authority per la pubblica amministrazione, la cosiddetta Civit. Concepita per rappresentare il guardiano della meritocrazia, non ha mai svolto quella funzione. Ora è stata riconvertita in autorità anticorruzione affidata al magistrato Raffaele Cantone, sanando una ferita che risale al 2008, quando quel Garante previsto dagli accordi internazionali era stato improvvisamente abolito. Ma il problema delle valutazioni (vere) e dei controlli (reali) delle performance, in piena epoca di spending review, è ancora tutto lì.
Al centro come in periferia. L’anno scorso il Corriere del Mezzogiorno ha rivelato che nella Regione Campania quasi tutti i dirigenti avevano maturato il diritto a percepire gli incentivi previsti. E la Lombardia? «Mentre i 270 impiegati sono impegnati in una estenuante trattativa per il rinnovo del contratto integrativo», ha scritto in un articolo su Repubblica Matteo Pucciarelli lo scorso 30 maggio, «a 27 dirigenti amministrativi sono stati liquidati i premi di risultato 2013: in media, 20 mila euro a testa». E l’Emilia Romagna? Per i premi dirigenziali, ha spiegato il Resto Del Carlino «si spenderanno quest’anno 600 mila euro in più, da 2,6 a 3,2 milioni. Sul podio ci sono 184 dirigenti. L’ultima volta erano 160. In futuro c’è la promessa di usare criteri più oggettivi, dicono in Regione, ma per ora nulla è cambiato: a sette dirigenti su dieci viene assegnata la valutazione massima».
Ma così fan tutti. Dove per tutti non si intendono le fasce dirigenziali, ma il complesso dei dipendenti pubblici. Un esempio? Nell’autunno del 2012 la giunta dimissionaria della Regione Lazio guidata da Renata Polverini firmò con i sindacati un contratto integrativo per il personale regionale semplicemente surreale. La possibilità di accedere agli incentivi economici era legata alla compilazione di una scheda di valutazione nella quale non esisteva neppure la casella «insufficiente».
Per non parlare delle cosiddette «progressioni orizzontali», ovvero gli aumenti di stipendio concessi ai dipendenti di alcune amministrazioni. L’ispettore della Ragioneria generale dello Stato che ha passato al setaccio i conti della Regione Calabria ha descritto uno scenario impressionante. Per i circa 3 mila dipendenti di quell’ente si sono registrati dal 1999 al 2010 qualcosa come 17.946 «progressioni economiche orizzontali». Sfidiamo chiunque a dimostrare che a quegli aumenti di stipendio ha corrisposto un aumento della qualità dei servizi erogati a imprese e cittadini calabresi.
Allo stesso modo, gli ispettori spediti dalla Ragioneria a esaminare nel 2010 i conti della Regione Campania denunciarono in un rapporto ustionante che negli anni precedenti tutti gli oltre 7 mila dipendenti regionali ne avevano beneficiato a più riprese. Unici esclusi, coloro che avevano riportato condanne penali o sanzioni amministrative pesanti. Nemmeno tutti, però.
Come del resto prevedeva un contratto integrativo, firmato qualche anno fa sempre dai sindacati dell’Ama, l’azienda municipalizzata dei rifiuti di Roma, con i vertici aziendali dell’epoca. Contratto che prevedeva la corresponsione di un premio di produttività a chi si fosse presentato al lavoro almeno metà del tempo e non avesse accumulato più di sei giorni di sospensione disciplinare. Fannulloni e castigati, ma premiati lo stesso.
Il Corriere della Sera – 18 agosto 2014