Gli allarmi si susseguono, ma è difficile dire a chi sono rivolti. Perché se è vero com’è vero che la crisi economica sta mettendo in difficoltà i fondi sanitari e le mutue, della stabilità, trasparenza ed efficienza di questi strumenti di welfare complementare nessuno si occupa. O per meglio dire: non esiste una struttura o un’Authority di vigilanza su questi strumenti, che si occupano della salute di 5,8 milioni di italiani le cui prestazioni – secondo gli ultimi dati – sono nel 53% dei casi sostitutive di quelle del Servizio sanitario nazionale.
Esiste solo l’attività “cartolare” dei ministeri del Welfare e dello Sviluppo economico: questi dicasteri ricevono da casse, mutue e fondi sanitari integrativi la richiesta d’iscrizione all’anagrafe (presso il Welfare), le variazioni dell’organigramma e i dati di bilancio; questi documenti vengono archiviati spesso senza nemmeno uno sguardo. Lo stesso registro non è accessibile dal pubblico: lecito chiedersi dunque se chi ci offre prestazioni sanitarie integrative, in cambio di denaro, sia davvero accreditato presso il ministero. In cinque anni di attività di questo registro, secondo il decreto Sacconi, non è mai stata registrata una verifica, un richiamo, un approfondimento, un’analisi sull’attività di un fondo sanitario. Niente.
Eppure sulla salute non si scherza o quanto meno non si dovrebbe scherzare. Di certo, l’ipertrofico legislatore italiano ha mostrato distrazione e confusione nei confronti di un mondo, nonostante l’importanza della materia, il tasso di iscrizione e il giro d’affari generato: la sanità integrativa vale circa 30 miliardi di euro l’anno, a fronte di un giro d’affari del servizio sanitario nazionale di 110 miliardi. I 13 principali fondi sanitari contrattuali, aderenti al Forum “Assistiamo” (circa il 40% degli iscritti), erogano rimborsi per 700 milioni di euro l’anno per spese mediche.
In tutto sono sei milioni gli italiani iscritti a 300 fondi sanitari che hanno l’obbligo di vincolare riserve per il 20% del totale a prestazioni odontoiatriche, Ltc (cure mediche a lungo termine), protesi e prestazioni sociosanitarie. L’equilibrio attuariale di queste strutture è, come detto, messo in difficoltà dalla crisi economica, visto che il calo degli iscritti segue quello degli occupati nei diversi settori: si tratta di strutture a ripartizione e non a capitalizzazione, per cui se calano le entrate e le uscite restano stabili si produce un deficit. Anche per questo, molti fondi si “assicurano” con ri-assicuratori: un gruppo ristretto di soggetti che si dividono il mercato e che si caricano di questi rischi attuariali, a fronte di costi che ricadono sugli utenti finali. Costi in aumento o prestazioni in riduzione: un dilemma di non facile soluzione per chi guida questi soggetti.
Differenti le mutue: strutture no profit di natura cooperativa che non ricadono sotto il ministero del Welfare o della Sanità ma sotto quello dello Sviluppo economico, secondo uno dei molti paradossi giuridici italiani. Anche le mutue sono tenute all’iscrizione all’albo presso il Welfare, in base a prerequisiti di tipo formale analoghi a quelli dei fondi sanitari; la comunicazione del rendiconto economico annuale segue però le regole del terzo settore: non civilistico, cioè. Anche in questo caso, alla richiesta di correttezza formale non corrisponde nessuna verifica: non si ha memoria di ispezioni, richieste di aggiornamenti, approfondimenti, verifiche.
Certo, pur essendo non irrilevante il giro d’affari del sistema, le strutture non hanno capitali cospicui in gestione e non accantonano a riserva somme ingenti. Ma non è mancato in passato qualche caso di allocazioni poco lungimiranti: immancabile nel 2008 la scoperta di obbligazioni Lehman, in cui alcuni fondi avevano investito, tramite intermediari improvvisati. E proprio perché sulla salute non si scherza, sarebbe forse opportuno che un’autorità di vigilanza potesse definire criteri un po’ più specifici su una serie di temi operativi: l’allocazione delle risorse finanziarie, l’assegnazione dei mandati a ri-assicuratori magari attraverso bandi pubblici, i criteri di gestione attuariali dei flussi economici, la scelta tra prestazione economica (rimborso) e assistenziale (convenzioni con strutture sanitarie), con beneficio sui costi a carico degli iscritti e della trasparenza dell’attività, giusto per indicarne alcune. In quest’opacità proliferano malintesi o dicerie tra soggetti in concorrenza tra loro, che rischiano solo di inficiare la fiducia dell’utente finale. Che di tutto ha bisogno – e in primis di un Welfare integrativo adeguato e più esteso –, ma non di assistere a qualcosa di analogo a quanto accaduto di recente alla previdenza delle Casse dei professionisti, con le inchieste giudiziarie e gli arresti per alcune derive patologiche in materia finanziaria.
Il Sole 24 Ore – 23 maggio 2014