Confermata la vittoria del lavoratore, reintegrato in azienda, con tanto di risarcimento del danno. Decisiva la considerazione che la comunicazione ‘incriminata’ è stata rivolta a un professionista legale, e quindi è stata destinata a rimanere confinata in un ambito ristretto di conoscenza, quello di potenziali attività difensive del dipendente.
Comunicazione ‘scottante’, quella compiuta dal lavoratore: egli, difatti, utilizzando proprio il computer dell’ufficio, invia, tramite e-mail, un messaggio al proprio legale, messaggio contenente oltre duecento files aziendali relativi a commesse e appalti. Ma ciò non è sufficiente per legittimare la dura reazione della società, concretizzatasi nel licenziamento del dipendente. Decisiva la considerazione che i files non sono stati divulgati, bensì trasmessi al professionista legale, e quindi destinati a rimanere in un ambito prestabilito di conoscenza, limitato ad eventuali attività difensive del lavoratore (Cass., sent. 5179/14). Altalenanti le valutazioni dei giudici di merito: in primo grado, difatti, il «licenziamento disciplinare» deciso dall’azienda viene considerato legittimo; in secondo grado, invece, visione completamente stravolta, con declaratoria della «illegittimità del licenziamento», e conseguente «reintegrazione» con «risarcimento del danno». Durissima, ovviamente, la reazione dell’azienda, che rivendica la correttezza del proprio operato, e, allo stesso tempo, ribadisce la tesi della gravità del comportamento del proprio dipendente. A quest’ultimo proposito, i legali dell’azienda criticano aspramente la decisione assunta in Corte d’Appello, rimarcando il fatto che «il lavoratore non aveva mai» dimostrato che «i documenti trasmessi al difensore fossero utili per un’attività di difesa giudiziaria». Come si può, domandano i legali dell’azienda, non vedere la violazione compiuta dal lavoratore? Comunicazione. Ma le obiezioni mosse dall’azienda cadono nel vuoto… Di conseguenza, la ‘vittoria’ del lavoratore – ossia «illegittimità del licenziamento», «reintegrazione» e «risarcimento del danno» – diviene ora definitiva. Nessun dubbio, difatti, viene espresso dai giudici del ‘Palazzaccio’ sull’ottica adottata in Corte d’Appello: «la trasmissione dei files» non può costituire «un fatto così grave da essere sanzionato con il licenziamento». Ciò per due motivi: primo, «i files non risultano essere stati divulgati, ma trasmessi al difensore»; secondo, «la società» non ha «offerto alcun elemento per comprendere la natura di tali documenti e, quindi, per capire l’importanza» dell’operazione compiuta dal dipendente. Comunque, chiariscono i giudici, seguendo la linea di pensiero tracciata in secondo grado, «la trasmissione di atti aziendali ad un difensore e la loro divulgazione sono condotte radicalmente diverse tra di loro, in quanto la prima radica l’informazione presso un professionista che è tenuto alla riservatezza ed anche, sul piano deontologico, ad informare il cliente sulle conseguenze di una diffusione ulteriore» di quelle «informazioni».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it – 19 maggio 2014