Più pubblico, meno privato. In Italia i costi per ogni cittadino sono coperti al 77% dallo Stato, al 20% dalle famiglie e solo al 3% dalle assicurazioni (in Germania al 12% e in Francia al 16%)
Tecnologia e medicina. Industria e sanità. Legami complessi e delicati. Che, in Italia, a causa dei vincoli finanziari a cui è sottoposto l’intero Sistema Paese, si trovano ora a un bivio. Inseguire l’innovazione e curare meno persone? O adoperare strumenti più consolidati e maturi che già garantiscono buoni risultati con molti pazienti, ma rischiando così di perdere il treno dell’innovazione?
«Oggi – dice Luigi Martinelli, direttore di Cardiochirurgia all’ospedale Niguarda di Milano – esiste un tema insieme scientifico e deontologico, gestionale e etico: la compatibilità dell’universalità del nostro sistema sanitario con le nuove tecnologie. La sfida è che esse siano efficaci e appropriate. Ma anche sostenibili».
I medici italiani, che di fatto ogni giorno uniscono al camice la calcolatrice del controller, sanno che – in ospedale – devono conciliare innovazione e sostenibilità economica. Come evidenzia l’ultimo rapporto Oasi del Cergas della Bocconi, i medici italiani fanno le stesse cose dei loro colleghi francesi e tedeschi, ma hanno a disposizione un quarto delle risorse in meno. In Italia la spesa sanitaria procapite è coperta al 77% dalla spesa pubblica e al 20% dalle famiglie, mentre solo il 3% dalle assicurazioni, che pesano in Germania per il 12% e in Francia per il 16 per cento. «Alcuni osservatori superficiali – rileva Francesco Longo, direttore del Cergas – tendono ad accreditare una relazione diretta fra la crescente copertura delle assicurazioni e l’accesso alle nuove tecnologie. In realtà, non è così. La questione è di carattere sistemico: il nostro Paese ha un tale squilibrio nei conti che, alla fine, per la nostra spesa sanitaria sono sostenibili solo le tecnologie, come i farmaci, con un minimo di “maturità”. Di solito è riscontrabile un gap di duetre anni con le innovazioni. Che arrivano da noi quando il loro prezzo è sceso. Diverso il caso delle innovazioni che rompono i paradigmi. Ma, davvero, sono pochissime. Lo standard è un altro ». Dunque, il rapporto fra tecnologia e medicina, fra industria e sanità
A CURA DI in Italia è riconducibile a una questione, in apparenza banale ma in realtà estremamente complessa: quando conviene cambiare tecnologia, sostituendo una vecchia (più economica) con una nuova (più cara, ma con maggiore potere curativo)?
La quotidianità, negli ospedali, è complicata. Le risorse tendono a ridursi e non sempre vengono utilizzate al meglio in termini di efficienza. La cardiochirurgia è uno dei terreni più avanzati in cui sperimentare il paradosso della tecnologia migliore che potrebbe non costituire, in assoluto, la decisione migliore. Allo stesso tempo, compiere scelte sistematicamente non rischiose potrebbe portare il sistema sanitario italiano lontano dalla frontiera tecnologica. Decisioni complicate che vengono affrontate nella Cardiochirurgia del Niguarda, dove ogni anno si susseguono novecento casi su quattromila ricoveri di pazienti cardiopatici. Novecento casi trattati da sedici degli ottanta medici impegnati nel Dipartimento Cardiotoracovascolare del Niguarda, che viene affiancato nelle sue attività di ricerca e di cura dalla Fondazione Centro Cardiologia e Cardiochirurgia Angelo De Gasperis.
«Ci sono alcuni esempi che mostrano davvero la contraddizione potenziale – aggiunge Martinelli – in cui rischiamo di incorrere non soltanto noi come reparto di eccellenza del Niguarda, ma tutta la sanità italiana». La cardiochirurgia, con la sua miscela di innovazione radicale e di innovazione incrementale, ha una sua forza emblematica. Un primo esempio è costituito dal cuore artificiale. Quello che viene tecnicamente definito Vad ( Ventricular assist device). In Italia il Vad significa la differenza fra vivere e morire, dato che i donatori di cuore sono sempre meno: nel 2013 sono stati eseguiti 219 trapianti (il 40% in meno rispetto a cinque anni prima) e sessanta italiani in lista per il trapianto sono morti per la mancanza di cuori idonei. Il modello oggi più adoperato costa 85mila euro. Dopo due anni è vivo l’80-90% dei pazienti, contro il 25% di quelli che fanno la sola terapia medica. La nuova generazione viene offerta a 100mila euro e comporta una qualità della vita più elevata. «Il cavo che esce dal corpo è molto più sottile – spiega Martinelli – e le batterie pesano quasi la metà. La qualità della vita del paziente è molto migliore». Costa quindicimila euro in più. Il rischio è che – a parità di budget – se ne possano curare di meno. Non tanti in meno, ma qualcuno in meno sì.
Questa contraddizione – qualità della vita versus incidenza sui budget fissi – viene spesso esaltata. Prendiamo il trattamento dell’insufficienza mitralica con le neo-corde in goretex. Il trattamento convenzionale richiede l’apertura del torace, l’intervento a cuore aperto e la circolazione extracorporea. Il paziente ha un periodo di ricovero di due-tre settimane. Il suo recupero psico-fisico può durare anche due-tre mesi. «L’utilizzo della nuova tecnologia – ricordano al Niguarda – permette una incisione di pochi centimetri per accedere all’apice del ventricolo sinistro. L’impatto sul corpo e sulla psiche del paziente è decisamente minore». Peccato che, con il metodo tradizionale, il prezzo del materiale protesico si aggiri intorno ai 5mila euro, mentre con quello nuovo sia pari a circa 16mila euro. Al congresso dell’American College of Cardiology, nel marzo del 2014, è stato presentato uno studio su trenta pazienti. Risultati incoraggianti. Metodica sicura. Costa più del triplo. «Non è mai semplice orientarsi – avverte Martinelli – anche perché, a livello internazionale, è capitato che, a fronte di grandi entusiasmi iniziali, alcune tecnologie abbiano dato risultati tutt’altro che strabilianti. Un esempio è stata la denervazione renale».
La questione non riguarda solo il nostro Paese. «In realtà – osserva Fabrizio Landi, fino a un anno fa ad di Esaote e oggi impegnato nel Distretto toscano di scienze della vita – riguarda tutto l’occidente. Nella letteratura americana viene definito health technology assessment. Vale nelle attività in cui il paziente può essere prossimo alla morte, come la cardiochirurgia. Ma vale anche in altre specializzazioni. Per esempio, l’ortopedia: basta pensare alla scelta fra un “chiodo” di chiusura post trauma e una protesi al titanio, alla differenza di costo ma anche alla differenza nella qualità della vita di chi viene operato». Inoltre, la scarsità di utilizzo indebolisce il nostro sistema industriale: se i nostri medici non usano una nuova tecnologia dall’impatto radicale sulla terapia, sarà probabilmente più difficile che il nostro sistema imprenditoriale possa decidere di svilupparla e “industrializzarla”, riuscendo magari ad esportarla.
Per Landi, a questo punto, occorrono linee di policy precise. «Ogni Regione – osserva Landi – tende a creare centri di eccellenza che aiutino a superare la divergenza della crescita delle tecnologia e della riduzione dei budget a disposizione, luoghi in cui indirizzare certe patologie per avere maggior massa critica e quindi efficienza anche economica. Va bene. Andrebbe anche meglio se, però, a livello nazionale ci fossero indicazioni e linee precise di health technology assessment, magari tramite un coordinamento. Come capita all’estero. Credo che, al Governo, ci stiano pensando. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, si è espressa in pubblico a favore di questo. Se questa intenzione si trasformasse in realtà, sarebbe una cosa assai utile».
Storicamente, nel nostro Paese, le politiche di welfare e le politiche industriali sono state considerate distinte. Invece, nella modernità, esse sono intimamente correlate.
Il Sole 24 Ore – 22 aprile 2014