La fissazione di un tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici di prima fascia riguarda 50-60 persone che non potranno percepire più di 238 mila euro all’anno, cioè non più dell’emolumento del Capo dello Stato; sarà altresì possibile un ulteriore taglio del 10% che sarebbe recuperato solo se vengono soddisfatti determinati parametri.
L’affermazione secondo la quale nessuno può avere uno stipendio superiore a quello del Presidente della Repubblica è giusta e condivisibile. Passare, tuttavia, da questo punto fermo alla concreta applicazione del principio non è automatico. In primis, bisogna riconfermare una rigorosa onnicomprensività dei trattamenti, fringe benefit eventualmente compresi; diversamente, l’inventiva elusiva sarebbe massimamente agevolata. Poi, occorrerebbe rivedere l’intera scala gerarchica con la connessa regolamentazione, non solo normativa, ma anche economica. Inoltre, va definitivamente chiarito se il tetto si applichi anche ai dirigenti e agli esponenti delle Authority, per non parlare degli organi costituzionali, ai quali Renzi ha rivolto una sollecitazione all’adeguamento: ma, ovviamente, si tratta di una questione complessa che non si risolverà verosimilmente con immediatezza.
Non per ultimo, bisognerà stabilire un raffronto con i trattamenti dei manager di società pubbliche o a partecipazione pubblica maggioritaria, anche essi soggetti al tetto degli emolumenti. Ma, poi, neppure i trattamenti dei manager delle quotate dovrebbero essere sottratti alla regolamentazione annunciata. E a questo proposito va ricordato che il progetto comunitario mirante, con una direttiva o un regolamento, a porre in tutte le società una limitazione alle remunerazioni dei manager non è passato, mentre saranno probabilmente accolte forme di trasparenza maggiori e un potere decisionale delle assemblee che potrebbero diventare le uniche competenti a fissare tali retribuzioni. Si può ritenere solo una risposta frutto di una momentanea stizza («ce ne faremo una ragione») quella che il premier Renzi ha dato a chi prospettava che, in conseguenza di una disciplina del genere, dirigenti operanti nella Pa potrebbero passare al privato. È una eventualità che ovviamente non si può escludere, che può verificarsi. Ma la competitivita nelle risorse umane è un dato reale e chi governa l’amministrazione pubblica deve porsi sempre l’obiettivo di premiare il merito e le professionalità operando, come del resto fa il privato, per valorizzare e non disperdere le risorse migliori. L’architettura che discende dall’introduzione dei limiti a queste politiche di remunerazione è una sorte di rete che, se da un lato risponde a esigenze di giustizia distributiva, dali’ altro può favorire però appiattimenti e minore capacità propulsiva e innovativa. A quelli poi che siano coperti da un contratto non scaduto, sarà problematico applicare i nuovi limiti, potendone discendere vertenze di dubbio esito per lo Stato. In ogni caso, la migliore revisione dei trattamenti – dopo la scoperta delle non affatto recenti differenze con il trattamento economico del Capo dello Stato – presupporrebbe una rivisitazione del funzionamento della Pa, una revisione delle strutture e delle procedure, delle prerogative e delle responsabilità, delle autonomie decisionali e delle collegialità. Ciò darebbe sostanza a una equilibrata regolamentazione, da affrontare senza mai dimenticare le esigenze meritocratiche.
Milano Finanza – 11 aprile 2014