Se il governo di Matteo Renzi cambierà i nomi e soprattutto le “regole d’ingaggio” dei direttori generali e dei capi (e membri) dei gabinetti ministeriali, forse davvero il Palazzo potrebbe tremare. La prima scossa è arrivata, ieri, col discorso della fiducia. È importante, però, avere ben chiari gli obiettivi di una simile manovra, che vanno ben oltre il facile payoff della pedata anticasta.
Oggi agli incarichi apicali della Pa può accedere solo un’élite fatta di consiglieri di Stato, magistrati, alti dirigenti e professori universitari. Questo ha due conseguenze: da un lato determina un forte problema di autoreferenzialità, dall’altro lascia ministri non sempre preparatissimi in balia di una burocrazia i cui interessi non sono necessariamente allineati con quelli dei vertici politici. Col risultato che, non di rado, le carriere dei ministri (o quanto meno i provvedimenti da loro promossi) si infrangono su una gestione “disinvolta” delle norme, un uso chirurgico di freno e acceleratore nell’emanazione di regolamenti e decreti attuativi, correzioni furbette agli articolati di legge.
Per uscirne, bisogna sciogliere tre nodi. Il primo riguarda la natura degli incarichi di direttore generale e membro di gabinetto dei ministri: l’uno in forza all’amministrazione, l’altro strettamente fiduciario del ministro. In entrambi i casi è importante imputare correttamente le responsabilità, assegnare un peso cruciale alla valutazione dei risultati, e superare l’attuale situazione di inamovibilità. Oggi i direttori generali restano sostanzialmente illicenziabili, avendo superato un concorso pubblico. Il loro inquadramento andrebbe invece allineato a quello dei dirigenti nel settore privato. Nel frattempo, come ha evidenziato Mariella Mainolfi (Il Sole-24 Ore, 21 febbraio 2014), si può fare molto con le norme esistenti: che permettono, per esempio, di attribuire grande rilevanza alle misure di performance e di introdurre un obbligo di mobilità tra le amministrazioni per evitare cristallizzazioni.
Il secondo tema ha a che fare con le modalità di selezione del personale. I dirigenti dovrebbero essere individuati attraverso selezioni le più trasparenti e competitive possibili (Fabrizio Forquet ha proposto, almeno per alcune posizioni chiave, addirittura una call internazionale – Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2014). I membri del gabinetto, invece, dovrebbero rispondere in modo più diretto e forte al ministro, perché ne rappresentano il vero braccio operativo. A ogni modo, occorre abbandonare l’anacronistico requisito di appartenenza ad altre “caste” (appunto, magistrati, consiglieri di Stato ecc.) per ottenere l’incarico. È certamente un modo per garantire l’afflusso di persone competenti, ma non è certo l’unico né il più efficiente. Anzi, bisognerebbe definire una vera e propria incompatibilità: non solo perché si tratta di carriere diverse senza alcuna giustificazione logica all’osmosi, ma anche e soprattutto per soffocare gli ovvi conflitti di interesse. Come minimo, bisognerebbe estendere l’attuale obbligo di aspettativa per i capi di gabinetto a tutti gli altri membri del gabinetto stesso.
Il terzo punto è quello più importante: figure quali i direttori generali e i capi di gabinetto sono, in modo e con funzioni diverse, strumentali all’adozione di decisioni politiche (incluso evitare che vengano fatte scelte palesemente illegittime). Per quanto perfetta sia la governance, l’efficacia in ultima analisi dipende dal “manico”: nessuna norma sarà mai chiara, trasparente e adeguata se non c’è a monte una forte determinazione a evitare provvedimenti confusi. In questo senso, prima ancora della rivoluzione tra i dirigenti, il governo compirebbe un gesto rivoluzionario se prendesse l’impegno a non emanare più decreti “omnibus”, che sono il terreno di coltura ideale per i comportamenti opportunistici delle burocrazie. Non si può cambiare verso se non si parte da qui.
Il Sole 24 Ore – 25 febbraio 2014