C’è un piccolo impero nato silenziosamente, in questi anni segnati dalla crisi, nel cuore del Nordest, grazie all’inventiva di un giovane veneto, eppure lontano dalle fanfare ideologiche della triade «territorio/identità/tipico-è-bello». Nel Nordest sospeso tra ethos di provincia e adesione a uno stile di vita sempre più cosmopolita, i paradigmi economici, sociali, di consumo cambiano rapidamente.
Se n’è accorto Cristiano Gaifa, veronese, quando nel 2006, 34 enne, ha posto il mattone iniziale del suo impero, aprendo il primo dei ristoranti Zushi: cucina giapponese di qualità, alla portata delle tasche del ceto medio, con un’attenzione speciale al lato giocoso, quasi interattivo, della proposta gastronomica. Ma il sole non si leva su Osaka o su Kyoto; semmai su Vicenza, Padova, Treviso.
Ha cominciato quasi per scherzo. Nel 2006 Gaifa è un giovane di Verona che non sa bene cosa fare della sua vita, con alle spalle una carriera imprenditoriale di successo ma ormai conclusa. Nel 1997 era stato uno dei primi a importare in Italia gli erogatori di acqua per ufficio, quei bottiglioni con rubinetto bianco e azzurro che aveva visto nei film americani e che, da noi, erano ancora una rarità un pò esotica. Il pioniere degli erogatori per qualche anno li «piazza» freneticamente in tutto lo Stivale. Poi, nel 2005, vende a Nestlè.
Ha una buona idea: fare un giapponese, ma nuovo, diverso, dedicarlo a chi al giapponese di solito non va, o perché costa troppo, o perché ha paura dell’igiene spesso incerta dei locali economici italiani, o perché diffidente verso il cibo «strano». Detto, fatto. Il primo Zushi è già l’embrione di tutti i 14 altri ristoranti che verranno, in soli sei anni, con un ritmo di una nuova apertura ogni 4 mesi. Arredi bianchi, essenziali, disegnati da un architetto che ricorre a linee pulite e minimaliste, musica chillout, gastronomia di buona qualità a un prezzo socialdemocratico (tra i 20 e i 40 euro a persona). Come dire, dopo l’Ikea, una sosta al giapponese. E poi il lato «social», trendy e giovanilista: i menu in sala cliccabili su iPad, la possibilità di ordinare da casa con un’applicazione dello smartphone, i bentobox ripieni di maki e di insalate di alghe che arrivano a domicilio su piccole Smart verde pistacchio, o takeaway.
Uno, due, tre, 15 ristoranti: così, oltre ai principali capoluoghi veneti, Zushi si è espanso a macchia d’olio di città in città, allargando il proprio Lebensraum a Trento, Trieste, Mantova, Modena, Parma, Bologna, Brescia, Bergamo e Milano, con una formula che al franchising ha progressivamente preferito la proprietà diretta, della casa madre veronese. E si prepara, nel 2014, a sbarcare a Bolzano, Thiene (prima città non capoluogo), Torino, Firenze e Roma.
«Un’espansione progressiva ma a ritmi costanti, senza voli pindarici tra le grandi città estere, come hanno fatto altri», commenta ora Gaifa, consapevole che la cautela è stata una ricetta vincente in anni di recessione.
Ma il vero segreto di Zushi sono forse le redini saldamente italiane. Oltre a uno chef giapponese e a una serie di cuochi orientali, i 150 dipendenti dei ristoranti sono, per ammissione stessa dell’azienda, in prevalenza «autoctoni». l’impressione dell’avventore è l’esotico a casa propria, confezionato da mani sicure. L’olfatto è rassicurante, l’igiene curata, e, tanto per essere chiari, non c’è l’atmosfera di penombra un pò stantìa tipica in Italia dei ristoranti orientali di fascia media e medio-bassa. Piaccia o no, quella di Cristiano Gaifa è un’operazione commercialmente anti-cinese. Se si eccettua il ristretto segmento di ristoranti giapponesi di lusso, quelli che si possono trovare a Brera, sul Canal Grande, o a Roma in via Boncompagni, inaccessibili alla gran parte dei clienti, sono i cinesi i veri monopolisti della ristorazione giapponese poco costosa nel nostro Paese (il che, va detto, è un controsenso). Così, proprio mentre Hu Lishuang «Marco» apriva le catene di gigantesca ristorazione Wok-Sushi, con la benedizione dell’allora candidato leghista Luca Zaia che ne apprezzava «i prodotti a chilometro zero», Cristiano Gaifa cresceva nella discrezione, metteva in tavola nuove pietanze dai nomi suadenti – «saudade», «fastlove», «Venice beach» – e portava i fatturati alla cifra ragguardevole di 10 milioni di euro annui. Con un incremento record, per il 2013, del 40% sull’anno precedente. L’obiettivo è di arrivare a fine 2014 «sopra i 15 milioni di euro». Ma in tutto questo Gaifa resta con i piedi per terra: «Espanderci fuori Italia? Perché no. Ma se lo faremo, non sarà a Dubai, a Stoccolma o a Parigi. Resto fedele alla nostra strategia: un passo per volta. Ho in mente l’area austriaca e tedesca. Potremmo cominciare da Innsbruck…». Il sushi si prepara a varcare il Brennero.
Francesco Chiamulera – Corriere Veneto – 16 febbraio 2014