La malattia se l’è portato via ieri a 57 anni (i prossimi li avrebbe compiuti il 3 marzo), dopo una lotta durata due anni. Il che non gli aveva impedito di girare un bel documentario sull’impegno umanitario — Medici con l’Africa , presentato nel 2012 a Venezia — e di portare a termine il suo ultimo lungometraggio, La sedia della felicità , presentato in anteprima al festival di Torino 2013 dove aveva ricevuto il Gran Premio della città.
Se ne è andato in punta di piedi, lottando contro il dolore, con la determinazione e la silenziosa ritrosia sue tipiche, le stesse che l’avevano fatto tornare a vivere nella natia Padova dopo un inizio professionale a Roma, una città — e un modo di essere — con cui non aveva mai legato. Lo si intuiva bene anche dai suoi film, che spesso raccontavano lo scontro tra periferia e centro, tra provincia e città. I suoi personaggi più riusciti e belli erano marginali, poco importa se per censo o per scelta o per autodifesa. Non era certo un vincente il protagonista del suo primo film, Notte italiana (che nel 1987 segnò anche l’esordio produttivo della Sacher Film di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo), l’avvocato che scopre le malefatte e le connivenze di un signorotto del Polesine. Né lo era il timido dentista romano di Un’altra vita (1992) che si innamora di una russa senza fissa dimora e per amore finisce invischiato in un mondo di piccoli delinquenti.
In mezzo c’era stato il passo falso della riduzione da Il prete bello di Parise, ma anche quell’«errore» era comunque indicativo del tipo di letteratura cui far riferimento. Nel 2004 tornerà a un romanzo, questa volta di Cassola, per L’amore ritrovato : un altro film non completamente riuscito, ma appunto significativo di un gusto decisamente lontano dalle mode. Il che non è qualità da sottovalutare.
Le sue cose migliori, comunque, la sua mano più felice si vede nella descrizione di questo mondo di provincia — geografico o mentale poco importa — cui evidentemente era molto legato e che sapeva ispirarlo al meglio. Un critico non certo tenero come Goffredo Fofi scrisse che Un’altra vita era girato con uno stile «poco italiano», a indicare una qualità preziosa e poco frequentata: la capacità di staccarsi dai peggiori cascami della «commedia» per cercare una strada originale, capace di raccontare un Paese vero e concreto, che era stato a lungo tenuto lontano dall’occhio delle macchine da presa. Era il mondo di Il toro (1994, con due amici che cercano di vendere in Ungheria un animale da riproduzione che hanno rubato), di Vesna va veloce (1996, sull’incontro tra una ventenne ceca che si mantiene facendo la prostituta e un operaio solo e sradicato), di L’estate di Davide (1998, storia delle vacanze di un 18enne che scopre le delusioni dell’amore e della vita). Un mondo che Mazzacurati racconta anche attraverso un gruppo di attori che sotto la sua direzione hanno spesso dato il meglio: Marco Messeri, Silvio Orlando, Claudio Amendola, Antonio Albanese (indimenticabile il suo «esordio» in Vesna va veloce ), Roberto Citran, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio (che ritrova Albanese in La lingua del santo , 2000).
Sempre Bentivoglio è il protagonista nel 2002 del film forse più ambizioso di Mazzacurati, il remake di A cavallo della tigre (già girato da Comencini nel ‘61), dove si riavvicina alla lezione della commedia all’italiana nella speranza di riconquistare un pubblico che negli anni del passaggio del secolo aveva dimostrato una certa insofferenza verso il cinema nazionale.
E i cui effetti si ritroveranno in La giusta distanza (2007) e soprattutto nel mezzo passo falso di La passione (2010). Ma sarebbe ingiusto attribuirne la colpa solo a Mazzacurati, che si era «allontanato» dal cinema tradizionale dirigendo tre bellissimi ritratti di scrittori conterranei: Rigoni Stern, Zanzotto e Meneghello. Quella «caduta» era stato uno scivolone di tutta l’industria nazionale, convinta che copiare fosse meglio che cercare soluzioni nuove.
Con La sedia della felicità Carlo aveva dimostrato ancora una volta la sua voglia di non percorrere strade già sfruttate e il risultato, che il pubblico italiano vedrà speriamo presto, era una specie di riscoperta del piacere della commedia, deliziosamente leggera e spensierata, all’inseguimento di due anti-eroi marginali (Mastandrea e la Ragonese) che inseguono un tesoro capace — forse — di cambiare le loro vite. Un film tenero, delicato, gentile, girato in uno stato di grazia che solo la crudeltà della malattia gli ha impedito di coltivare di più .
Il Corriere della Sera – 23 gennaio 2014