La norma italiana prevede di indicare luogo di fabbricazione-sede di stabilimento produttivo oltre a marchio e ragione sociale. Non tutti hanno notato che con l’entrata in vigore – prevista da dicembre 2014 – del Regolamento 1169/2011, “Informazione Alimentare ai Consumatori”, verrà fatto obbligo di indicare in etichetta soltanto la azienda produttrice (“la casa madre”), con riferimenti geografici per la localizzazione della stessa. Mentre va a scomparire indicazione dello stabilimento specifico di produzione, qualora diverso da quello dell’azienda produttrice in senso lato.
La norma – che di fatto era prevista anche dalla precedente direttiva europea, è stata però in passato filtrata dalla normativa italiana, più restrittiva. Infatti, in deroga al art. 3 par. 1 della Direttiva 2000/13 per l’Italia, l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione (decreto 109/92, art.3.1 lettera f) è ritenuta da indicarsi. Questa scelta rifletteva la volontà di una maggiore trasparenza al consumatore.
Cosa cambierà se le cose effettivamente vanno nella direzione voluta dal Regolamento UE, che si applicherà appunto dal prossimo dicembre? Per capirlo, bisogna intendere il ruolo della doppia indicazione (sede aziendale, nome produttore o ragione sociale / stabilimento di produzione-di confezionamento).
Consapevolezza dei consumatori
Intanto, una doppia indicazione riesce a garantire una maggiore consapevolezza dei consumatori, con un minore livello di opacità nella catena alimentare di fornitura. E’ un aspetto che permette di legare il prodotto ai territori, e rappresenta pertanto un elemento utile per visualizzare i vari passaggi (o almeno alcuni) della filiera. E così geo-referenziando il prodotto alimentare in modo più preciso.Questo in aggiunta alle indicazioni, volontarie od obbligatorie sull’origine del prodotto stesso. Ma vi è dell’altro.
Equilibrio negoziale tra fornitori e retailer
Poi, la via “Italiana” consentiva un incentivo a stabilire relazioni più eque lungo la stessa filiera alimentare: si ripristinava insomma il potere contrattuale dei fornitori a valle.
Ad esempio, rendendo noto che nei marchi privati (“private label”) della distribuzione, il fornitore dei prodotti era una azienda a se stante. Un aspetto all’apparenza così banale, se da un lato rendeva visibile al consumatore il reale produttore di un alimento, dall’altra consentiva alle imprese produttrici a monte di acquisire una notorietà autonoma e quindi un maggiore potere negoziale verso la grande distribuzione.
Il tema dei rapporti tra la Grande distribuzione è considerato infatti oggi critico dalla stessa Antitrust italiana, che ha aperto una indagine conoscitiva su una super-centrale ‘d’acquisto (Centrale Italiana) che consorzia diversi gruppi della GDO. Inoltre, l’Antitrust ha chiuso da poco una indagine conoscitiva sul settore distributivo nell’alimentare lo scorso agosto 2013.
…Sicurezza alimentare e recall
Ma l’indicazione dello stabilimento è utile anche in caso di crisi alimentari e richiami di prodotto. La scorsa estate non a caso, il Ministero della Salute, circa l’allarme botulino ha invitato a non consumare prodotti non in base al marchio del venditore, ma in base al nome dell’azienda produttrice (che denota il luogo, il contesto produttivo di reale fabbricazione). Invitando a controllare in particolare il lotto, la scadenza ed il nome del produttore sul retro del vasetto.
Nel contesto italiano quindi il vecchio obbligo di indicare anche il luogo di fabbricazione (109/1992) oltre al lotto, dovrebbe garantire una informazione aggiuntiva e di maggiore rassicurazione soprattutto per il consumatore finale, poco avvezzo ainterpretare codici “oscuri”. In certi casi un po’ di ridondanza permette insomma maggiore sicurezza.
…tutela delle imprese in caso di crisi
Non ultimo: in caso di crisi alimentare, come Mucca Pazza e diossina negli anni scorsi, l’indicazione del luogo di fabbricazione circoscrive meglio i produttori e i lotti da “mettere al bando”, salvando invece le aziende e imprese “sane”.
Cosa accadrà?
Se il Ministro della Salute precedente aveva speso alcune parole di apertura al mantenimento dello schema dell’indicazione dello stabilimento, bisogna anche ricordare che l’indicazione dello stabilimento era stata accettata dalla CE, proprio per una maggiore tutela della sicurezza alimentare, come ipotizzato dal Governo italiano e su richiesta delle associazioni di categoria.
Di conseguenza, e stanti le possibilità offerte dal Regolamento 1169 nell’ambito degli schemi volontari di informazione addizionale al consumatore (come quello dell’Inghilterra sui semafori in etichetta), si spera che l’indicazione dello stabilimento potrà essere sensatamente mantenuta. Bisogna continuare a chiedere che venga applicata l’attuale regime scelto dall’Italia, in modo da avere sia lo stabilimento di produzione che l’azienda produttrice. E in ogni caso, rendere più trasparente i passaggi di filiera.
Altri aspetti
Dopo la pubblicazione del regolamento 1337/2013 sull’indicazione dell’origine per le carni ovicaprine, suine e di pollame (luogo di allevamento e luogo di macellazione), le questioni che riguardano l’indicazione dell’origine presto (13 dicembre 2014) riguarderanno:
– altri tipi di carne (es, coniglio, equina…)
– latte e latte come ingrediente
– alimenti non trasformati
– prodotti monoingrediente
– ingredienti oltre il 50% sull’alimento.
Un esigenza quella dell’origine, sostenuta dalla maggioranza dei consumatori europei, in particolare dopo lo scandalo dell’Horsegate.
Marchio qualità Italiana
Se lo spazio per un nuovo Codice Alimentare Italiano, come suggerito da qualcuno, sembra esserci tutto, intanto, al Senato si sta discutendo del marchio di qualità Made in Italy, una proposta del PD, con Valeria Fedeli ed Ermete Realacci in prima fila. Augurandosi che l’Italia torni a fare l’Italia. Coldiretti chiede che si consideri non solo il domicilio fiscale delle imprese per poter utilizzare il marchio, ma che si abbia integrazione con la filiera di fornitura a monte, in modo da garantire che una percentuale significativa in modo da garantire che il prodotto finale sia davvero italiano e non solo marchiato italiano.In tal senso, sembra prioritaria una definizione minima della quantità delle materie prime utilizzate nel prodotto finito, perché siano davvero italiane.
Sicurezza Alimentare Coldiretti – 21 gennaio 2013