Pronto il Job Act disegnato dalla squadra del segretario Pd per eliminare il precariato. Niente contributi per le imprese nei primi tre anni, più tutele per gli atipici
Un contratto di lavoro stabile a tempo indeterminato con tutele crescenti per tutti i nuovi assunti. È il perno del “Piano per il lavoro” che il segretario del Partito democratico Matteo Renzi punta a presentare entro la fine di gennaio. Un Job Act pensato più per creare lavoro che per regolare il lavoro. Per questo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, diventato comunque soft dopo le modifiche introdotte con la legge Fornero, ha un ruolo marginale nell’impostazione renziana.
L’obiettivo è ricomporre il lavoro frantumato negli ultimi decenni che ha prodotto il dualismo tra garantiti e non, tra lavoratori giovani e lavoratori maturi. La strada non è però quella di bloccare la flessibilità, cancellando magari i contratti atipici o riducendone le tipologie, come era stato proposto nel passato dal Partito democratico in cui prevaleva l’ancoraggio alla cultura operaista, intorno alla quale era stato costruito a partire dagli anni Settanta tutto il sistema di protezioni sociali, dalle pensioni alla cassa integrazione. Ora alla guida del Pd c’è una generazione di trentenni che è cresciuta nella flessibilità. Dunque non saranno loro a pensare di imbattersi in una battaglia contro la flessibilità. Sarebbe persa. Sarà invece una battaglia contro la precarietà che ha resto fragile proprio la loro generazione.
UN CONTRATTO STABILE
Il gruppo che ha in mano il dossier lavoro (ci sono la responsabile dell’area Marianna Madia, quello del Welfare Davide
Faraone, Taddei ma anche l’economista-matematico Yoram Gutgeld alle cui tesi è molto sensibile Renzi) pensa che si debbano innanzitutto impedire gli abusi dei contratti flessibili. Se un contratto è a tempo per esigenze produttive non può surrettiziamente trasformarsi in contratto a tempo indeterminato attraverso una serie di pause e rinnovi. Stesso ragionamento per i contratti interinali. Da qui l’idea di un contratto unico, sulla scia delle proposte già avanzate da tempo dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e dal giuslavorista Pietro Ichino.
Resta il nodo dell’articolo 18, che regola la tutela dei licenziamenti senza giusta causa, prevedendo il reintegro ormai solo nel caso della discriminazione. La discussione è ancora aperta ma sembra prevalere l’impostazione (modello Boeri-Garibaldi) in base alla quale i neoassunti verrebbero esclusi dall’applicazione dell’articolo 18 per i primi tre anni, durante i quali, peraltro, l’imprenditore non pagherebbe i contributi che sarebbero a carico dello Stato. Mentre per i lavoratori flessibili il progetto prevede l’estensione delle tutele: dalla maternità alla malattia.
Non c’è dubbio che, anche questa volta, l’applicazione o meno dell’articolo 18 sarà uno spartiacque. Ieri è arrivato il messaggio del segretario della Fiom, Maurizio Landini: “Se Renzi vuole fare una cosa intelligente, ripristini l’articolo 18 per impedire i licenziamenti ingiustificati. Ripristini un diritto di civiltà”.
SUSSIDIO E FORMAZIONE
Chi perderà il lavoro avrà diritto a un sussidio di disoccupazione universale al posto dell’attuale cassa integrazione. Sarà uguale per tutti, senza distinzione in base alle dimensioni dell’azienda, all’area geografica, all’età anagrafica. Nel ragionamento della squadra di Renzi sarà il “paracadute” per tutti, visto che attualmente solo un lavoratore su tre ha diritto alla cassa integrazione, e che compenserà la maggiore flessibilità in uscita. Renzi punta a rafforzare lo schema già introdotto dalla Fornero con l’Aspi (l’assicurazione sociale per l’impiego). E guarda al modello tedesco, a quel “pacchetto Hartz” che dal 2005 ha sostenuto la ripresa della Germania: sussidio di disoccupazione e obbligo di frequentare un percorso di formazione. “Riqualificazione e formazione devono essere gli obiettivi per far funzionare il mercato del lavoro”, spiegano i renziani. In sostanza il sussidio diventerebbe il paracadute, la formazione la leva per rientrare nel mercato attivo del lavoro.
CENTRI PER L’IMPIEGO
Per fare questo sarà necessario intervenire sui centri per l’impiego che oggi intermediano meno del 5 per cento delle assunzioni contro, per esempio, un 20 per cento in Gran Bretagna. Il Pd sta ragionando sulla possibilità di integrare il servizio dei centri pubblici con quello delle agenzie private per il lavoro.
SINDACATI E PARTECIPAZIONE
Il singolare asse tra Renzi e Landini comincia a dare i suoi frutti. Il segretario del Pd pensa che, tanto più in una fase di crisi della rappresentatività dei soggetti sociali, si debba misurare il peso di ciascun sindacato. Serve dunque una legge sulla rappresentatività. Un cavallo di battaglia della Cgil e della Fiom che, anche a causa dell’assenza di un normativa di questo tipo, è stata esclusa dai tavoli negoziali con la Fiat di Sergio Marchionne. Certo, Renzi su questo si imbatterà sulla contrarietà della Cisl di Raffaele Bonanni, che considera questa materia di competenza delle parti sociali. E Renzi rischia di trovare il muro della Confindustria per frenare l’altra proposta sui sindacati: quella di far entrare i rappresentanti dei lavoratori (anche qui il modello tedesco) nei consigli di amministrazione delle aziende. Gli industriali si sono sempre opposti a questa eventualità. Comunque il “Piano per il lavoro” sarà oggetto di confronto con tutte le parti sociali, con la maggioranza e con il governo.
DIFESA DEL LAVORO
Il punto centrale resta – come dicono nello staff renziano – la creazione del lavoro. Così una delle ipotesi su cui si sta ragionando è quella di fissare alcuni paletti per difendere il lavoro in Italia. Esempio: ogni anno vengono stanziati più di 200 milioni a sostegno della produzione di film. Che poi vengono spesso girati in altri paesi, dal Marocco alla Romania, creando lì le occasioni di lavoro. Bene, si potrebbe fissare una regola secondo la quale l’accesso ai fondi sia vincolato alla produzione almeno per il 50 per cento in Italia.
Repubblica – 23 dicembre 2013